MILANO - Nella fase storica della Prima Repubblica, l’Italia aveva saputo esprimere figure contraddistinte da grande spessore umano, culturale, etico e professionale, del quale purtroppo si stanno drammaticamente perdendo le tracce. Una di queste, fu il fiorentino Piero Bargellini (1897-1980), uomo politico, scrittore, intellettuale, e uomo politico dell’area cattolica, la cui vita fu sempre caratterizzata da quella parca discrezione che è nel DNA dei veri toscani, restii alle passerelle e alle prime file. Gregorio Nardi, pianista e cultore della musica classica, veste i panni dell’oratore per narrare al pubblico milanese aspetti e aneddoti della vita del nonno materno, importante figura del panorama intellettuale fiorentino prima, italiano ed europeo dopo. L’interessante conferenza si è tenuta domenica 23 agosto, presso i Chiostri dell’Umanitaria.
Gli esordi di Bargellini, nella Firenze dei primi anni Venti, furono quelli dello “scrittore per caso”, condizione comune a tanti giovani reduci della Prima Guerra Mondiale, ormai consci dei profondi cambiamenti che stanno interessando l’Europa, e desiderosi di far sentire la loro voce. Negli anni del “ritorno all’ordine” predicato da Ardengo Soffici (anch’egli reduce dal fronte) nella pittura, Bargellini compie un’analoga operazione in letteratura: allontanandosi dai toni magniloquenti di Gabriele D’Annunzio, riscopre uno stile semplice, e il valore della nuda parola per narrare quella civiltà contadina che sta iniziando a scomparire, quella stessa, per ricollegarsi a Soffici, tante volte dipinta dalla scuola dei Primitivi.
Nel 1929 fonda e dirige la rivista Il Frontespizio, edita da Vallecchi, e che sarà un’importante palestra dei giovani ingegni dell’epoca, e che trattava di scienza, letteratura, architettura, in maniera non superficiale ma comunque con uno stile che poteva essere apprezzato anche da un pubblico meno preparato. Inizialmente orientata nell’area cattolica, per volere dello stesso Bargellini la rivista si aprì a tutte le istanze culturali, ma anche politiche. E ciò dà la misura dell’intelligenza dell’uomo, un uomo capace di vedere e capire i talenti altrui, e offrire loro l’opportunità di esprimersi.
Basti dire che sul Frontespizio esordì un giovanissimo Mario Luzi, lo storico Spadolini vi scrisse i primi articoli, così come Carlo Bo, che coniò il termine “ermetismo” e pubblicò il primo saggio sulla corrente poetica di Montale e colleghi. Erano, queste, istanze culturali completamente nuove, che non stonavano con l’originario carattere cattolico ma non votato alla tradizione, della rivista. E ancora, Nano Campeggi fu voluto da Bargellini per illustrare le copertine, e la sua strada sarebbe arrivata fino a Hollywood, dove costruì la sua carriera di disegnatore di locandine cinematografiche.
Nomi ed episodi che danno la misura dell’importanza del Frontespizio da un alto, e del suo direttore dall’altro, che amò così tanto Firenze e la Toscana, al punto da scrivere circa cento libri tutti dedicati all’arte, alla letteratura, alla religione, alle tradizione contadine della regione. L’avventura della rivista si chiuse nel 1940, ma Bargellini continuò la sua attività di scrittore e saggista, nonché di culture di storia e tradizioni locali.
Per queste sue competenze storiche ed artistiche, Giorgio La Pira lo volle nella sua giunta, in qualità di assessore alle Belle Arti e alla Pubblica Istruzione, finché, nel 1966, Bargellini stesso fu eletto sindaco, incarico che lascerà nel 1967, con l’elezione al Parlamento, in anni in cui la politica la si faceva con coscienza, e l’accumulo di cariche non era nemmeno immaginato.
Ma Gregorio Nardi, con il piglio che lo contraddistingue, racconta il Bargellini uomo di famiglia, ci svela la sua sensibilità di uomo politico, non seduto in ufficio a Palazzo Vecchio, ma in giro per la città per incontrare i fiorentini, ascoltarli, confrontarsi con loro, e amministrare con questa filosofia la res publica. Nel 1966, da “sindaco dell’alluvione”, riesce a portare la tragedia di Firenze all’attenzione del mondo, ottenendo quella solidarietà che forse non si sarebbe mossa in altre condizioni.
Ma da uomo politico, seppe anche volgere la sua disapprovazione verso un Governo, allora retto dal collega Aldo Moro, reo di non stare facendo abbastanza per fronteggiare l’emergenza; portò il Presidente della Repubblica, Saragat, in visita alla città alluvionata, non sui tranquilli Viali risparmiati dal fango, ma in Santa Croce, in mezzo ai fiorentini che stavano vivendo il dramma sulla loro pelle. Un gesto che piacque alla città, perché sentiva di avere un “primo cittadino” che lavorava per lei.
E ancora, la sua poca simpatia per i banchetti e i pranzi ufficiali, la predilezione per cibi semplici, parchi, schiettamente toscani. Può accadere che anche le abitudini alimentari rispecchino il carattere degli individui, ed è appunto il caso di Bargellini, estimatore della buona carne toscana, servita con i fagioli o un’insalata: per essere gustato, il cibo dev’essere sobrio. Questo il suo “credo gastronomico”, che rivela la passione estiva per i fichi, o le pere con il formaggio, tipico abbinamento della cultura contadina. Cibi che riecheggiano le più argute e gustose pagine del Sacchetti nel suo Trecentonovelle, sorta di riconosciuta “enciclopedia” sociologica della Toscana medievale.
Estimatore del buon vino, scrisse molto sulla sua storia, sul suo legame con la città di Firenze, ancora oggi testimoniato dalla toponomastica: via del Guanto, via del Fico, che nel nome ricordano la presenza di antiche osterie, luoghi di ritrovo della Firenze popolare, apprezzate anche da Collodi. Chi non ricorda le “celebri” osterie di Gigi Porco, Beppe Sudicio e cencio Porcheria (cfr. Occhi e nasi); così i fiorentini dell’ultima età lorenese chiamavano affettuosamente tre osterie cittadine.
Nei costumi gastronomici di Bargellini si ritrova molto, per non dire tutto, del carattere dei toscani, uomini e donne schietti, dalle abitudini non appariscenti, ma vocate alla sostanza delle cose.
L’enogastronomia toscana conserva ancora questo sentire, e l’Associazione Nazionale Case della Memoria, nata a Prato nell’ottobre 2005 e presieduta da Adriano Rigoli e Marco Capaccioli, ha ideato il ciclo di appuntamenti, costituiti da conferenze, presentazioni editoriali e degustazioni, per raccontare aspetti inconsueti della vita delle personalità che hanno abitate queste case oggi divenute musei, e il loro rapporto con il cibo, e di questo con la loro arte o pensiero.
E l’auspicio è quello di far sì che l’Expo possa anche essere una seria occasione di riscoperta delle nostre radici culturali tout court, e altresì di quel senso del bello, inteso in senso di armonia platonica, che in Toscana, ma anche nell’Italia tutta, alberga nelle sinuosità del paesaggio, nella raffinatezza del cibo, anche del più semplice, nell’arguzia e nella profondità di tante pagine di letteratura patria, e soprattutto nelle coscienze di quegli uomini politici che seppero governare il Paese con la convinzione di stare svolgendo una missione al servizio della collettività: un’etica che il Paese sta perdendo ogni giorno di più, ma che invece necessita di un’urgente riscoperta.
Appuntamenti che non hanno mancato di suscitare un vivace interesse nel pubblico milanese, e che hanno contribuito a promuovere l’Associazione e la cultura enogastronomica toscana. Perché l’uomo è anche ciò che mangia, e conoscere, e mantenere viva, una cucina atavica come quella italiana, è anche un modo per mantenere vivo il carattere del popolo italiano, non fatto per la globalizzazione, la dimensione industriale, le megalopoli, bensì cultore del bello nell’arte, nel paesaggio, nel buon cibo. Expo può essere un’occasione importante per riaffermare un patrimonio che ci sta sfuggendo, e considerare il cibo dal punto di vista dei grandi uomini del nostro passato, è sicuramente un incentivo per apprezzarlo ancora di più.
Niccolò Lucarelli