di Nicola Novelli Presidente di Comunicazione Democratica L'Unione Europea aprirà un'indagine nei confronti della così detta “Web Tax”, la discussa norma che impone l'obbligo di partita Iva italiana agli operatori della Rete che intendono vendere pubblicità a consumatori italiani. Dal 1 luglio 2014, le imprese che acquisiscono servizi di pubblicità e link sponsorizzati on line, dovrebbero dotarsi di una partita Iva. La modifica al testo Unico in materia di Iva, a cui viene aggiunto l’articolo 17 bis, fa sì che i soggetti passivi Iva che intendono acquisire servizi di pubblicità e link sponsorizzati on line debbono acquistarli da soggetti titolari di partita Iva.
La legge di stabilità 2014 ha inoltre previsto che l’acquisto di servizi pubblicitari on line, o servizi ausiliari deve essere effettuato solo ed esclusivamente mediante mezzi di pagamento tracciabili con il numero identificativo del beneficiario, al fine di permettere tutti i controlli del Fisco. Sin dal dibattito parlamentare il tema era apparso controverso e numerosi esperti erano intervenuti per ricordare che come, dove e perché si paga l’Iva in Europa è stabilito dall’Unione Europea, a cui l’Italia si è assoggettata, avendo sottoscritto i trattati contro la doppia imposizione fiscale.
L'argomentazione è stata ben espressa dall’American Chamber of Commerce in Italy, che ha affermato in un documento che “dal punto di vista etico il concetto generale che chi produce reddito in Italia debba pagare le tasse nel nostro Paese è corretto, ma tale argomento dovrebbe essere condiviso a livello di Unione Europea, o di altro organismo sovranazionale, come dimostrano le discussioni sul tema in corso in sede Ue e Ocse”. La norma anti-elusione è stata pensata per costringere Google e gli altri oligopolisti del mercato web a versare più tasse al Fisco italiano.
Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, il giro d’affari on line in Italia vale 11 miliardi di euro, compresi gli operatori italiani. Tuttavia il 70% del mercato è in mano ai primi 20 operatori del settore, per lo più stranieri. E i promotori della riforma, insistono sul fatto che la Web Tax punta a instaurare una maggiore equità. Nel 2012 Facebook ha pagato 192 mila euro di imposte italiane, Amazon 950 mila, mentre Google è arrivata a 1,8 milioni. Se aggiungiamo Apple, i quattro colossi del web non totalizzano più di 6 milioni di euro di imposte pagate allo Stato italiano.
Ma contemporaneamente Facebook, che ha eletto il proprio principale domicilio fiscale a Dublino, ha versato allo stato irlandese 1,9 milioni di euro su profitti lordi europei pari a 1,75 miliardi di euro. Questo perché le filiali italiane dei colossi del web, per lo più, non fatturano in Italia i proventi della raccolta pubblicitaria e dei prodotti venduti nel nostro paese. Gli introiti sono registrati come ricavi di servizi prestati da un’altra società del gruppo, quasi sempre domiciliata in uno stato con imposizione più favorevole.
Facebook e Google hanno sede principale in Irlanda, dove l’imposta sul reddito delle società è il 12,5% (meno della metà di quella italiana se si sommano Ires e Irap), mentre Amazon ha il suo quartier generale europeo in Lussemburgo. Anche negli Stati Uniti d'America il regime fiscale del web è un tema molto dibattuto, ma gli USA hanno comunque il vantaggio di un sistema già federale, per un mercato globale di 250 milioni di consumatori. Non è un caso, infatti, che il governo francese stia premendo per una risposta comune a livello europeo.
Il punto è questo. Le multinazionali della rete stanno facendo lo slalom tra le legislazioni fiscali e commerciali nazionali, per scegliere a proprio vantaggio gli assetti normativi più vantaggiosi a seconda delle esigenze. Questo è reso possibile dal fatto che le leggi nazionali non riescono più a imbrigliare il continuo cambiamento del commercio globale digitale. In generale sorprende l'indulgenza verso Google e Amazon manifestata da molti opinionisti italiani, che non sono riusciti ad andare oltre la polemica sulla web tax.
La legge si bloccherà sicuramente tra le maglie delle verifiche di Bruxelles. Ma il problema rimane è ed molto serio. Stiamo parlando di un gruppo di aziende il cui spirito innovatore ha offerto in pochi anni all'umanità straordinarie occasioni di avanzamento tecnologico e di progresso culturale. Ma è pur vero che, per altri versi, queste stesse imprese stanno approfittando di un vuoto normativo internazionale per eludere milioni di Euro/dollari di imposte che avrebbero dovuto pagare nei mercati linguistici di riferimento.
Sarebbe infatti preferibile cominciare a parlare di “mercati di cultura linguistica” e non più di mercati nazionali, cioè non riferibili ai confini geografici, poiché si tratta di ambienti virtuali, in cui spesso si scambiano servizi immateriali, identificati non dalle frontiere tra paesi, ma da ambiti linguistici, o cultura linguistica, riferibili, questi sì indirettamente a stati nazionali ben identificati. Si pensi ad esempio a tutte le pagine web scritte in Italiano, lingua ufficiale della Repubblica Italiana. Dunque una soluzione a livello UE, o WTO, deve essere trovata al più presto, se non vogliamo correre il rischio di consegnare nelle mani di poche aziende multinazionali con sedi in paradisi fiscali il sistema etico regolatore, conquistato faticosamente in due secoli dal diritto e dal fisco occidentali.
Perché stanno venendo meno quei principi fondamentali degli stati nazionali, come definiti due secoli fa dal pensiero illuminista e democratico. Per identificare la radice etica della questione riassumiamo in modo elementare il fenomeno. Queste aziende multinazionali hanno una sede in Italia con dipendenti propri. Raccolgono in Italia centinaia di milioni di Euro all'anno, ma trasferiscono il valore aggiunto dalle sussidiarie italiane a società consorelle con sede in Lussemburgo sotto forma di costi, per esempio di gestione del sistema informatico, o di licenze del marchio.
Per cui le filiali italiane fanno pochissimi utili. Anzi, i trasferimenti sono spesso corrispondenti all'utile realizzato in Italia e l'imponibile viene così azzerato. In questo modo gli utili si spostano altrove e le tasse non vengono pagate in Italia. Qual'è la conclusione? Anziché fare innovazione e sviluppo, tale condotta porta a una grave distorsione della concorrenza. Facciamo il caso di una concessionaria di pubblicità di una pagina web scritta in lingua italiana e messa on line da un sito internet con un dominio italiano.
Se la sede legale si trova a Milano paga imposte italiane, contributi INPS e regola le controversie commerciali sulla base delle leggi italiane. Se ha sede a Dublino, sul fatturato dell'identica pagina web paga un quarto delle imposte italiane e si tutela nelle controversie con i consumatori italiani presso i tribunali irlandesi. Vi pare giusto ed etico? E' urgente che la UE normi l'enorme vuoto del diritto occidentale generatosi negli ultimi anni e che sta trasformando anche i piccoli paesi dell'Unione in paradisi fiscali e normativi di fatto.
Il rischio che corriamo è che la smaterializzazione del mercato digitale e on line possa provocare in breve tempo problemi non prevedibili nella struttura sociale delle maggiori nazioni europee, quelle per intendersi con decine di milioni di abitanti e un regime fiscale completamente diverso dagli stati minori. Oppure vogliamo costringere le imprese digitali italiane a trasferirsi in Lussemburgo (come infatti sta già succedendo)? Intendiamo lasciare che imprese internet abbandonino l'Italia perché non siamo in grado di accettare la sfida di innovazione culturale che Google, Facebook e Amazon ci stanno lanciando? Chi pagherà le tasse per i servizi venduti in Italia? Rispondere a questa domanda significa prevedere chi sosterrà tra qualche decennio i costi ospedalieri, delle pensioni e dei servizi pubblici italiani.
E una cosa è certa: la migliore risposta a questa domanda, al momento, non è reperibile digitando un quesito testuale sul motore di ricerca griffato Google.