FIRENZE - Il Teatro della Pergola ha aperta la stagione in chiaroscuro, con Gabriele Lavia che ha diretto I pilastri della società, dramma borghese scritto da Henrik Ibsen nel 1877. Pur pieno di significati e di collegamenti con la realtà socio-politica contemporanea, il testo, proposto nella sua versione integrale, risulta ostico al grande pubblico, considerando anche la staticità scenica e il ritmo lento dell’azione scenica. Pertanto, a nostro parere sarebbe stato più opportuno tagliare o abbreviare quelle scene nelle quali Ibsen cede alla tentazione della prolissità. Da parte sua, Lavia sopperisce come può alla poca dinamicità del testo, e propone comunque una regia impeccabile e attenta al dettaglio, che trova completezza nella sontuosa scenografia di Alessandro Camera e gli eleganti costumi di Andrea Viotti; entrambi gli elementi permettono al pubblico di ammirare una splendida ricostruzione di un interno alto-borghese della seconda metà dell’Ottocento, che fa da sfondo a una torbida vicenda affogata nell’ipocrisia, nella falsità, e nella corruzione che ne deriva. Il numeroso cast è ben affiatato, e da ciò risulta uno spettacolo comunque coerente e artisticamente interessante, ricco di personaggi ben approfonditi, non soltanto attraverso la recitazione, ma anche attraverso i loro silenzi e la loro gestualità.
Anche i personaggi minori hanno il loro spessore drammaturgico, come ad esempio Andrea Macaluso che nelle vesti del professor Rørlund, ricorda l’Ivan Trofimovic dei dostoevskiani Dèmoni, anch’egli pedante e irresoluto uomo di lettere con vocazione da intellettuale, destinato però a continue delusioni a causa della irresolutezza e pochezza virile. A ben guardare, i veri pilastri della società, sono proprio uomini del genere, visceralmente attaccati alla propria tranquillità, e severi censori di qualsiasi liberalismo di costume.
Per questo, Ibsen un oscuro personaggio chiave del suo teatro borghese, fortemente critico verso quella società che dietro il rigore del protestantesimo nasconde svariate miserie morali. In questa vicenda, l’interesse economico legato al progresso scientifico positivista si scontra con il nascente movimento socialista operaio (rappresentato dall’ambiguo capocantiere Aune/Carlo Sciaccaluga), e con quei conservatori avversi al nuovo, per interesse o per mentalità. Ma dietro la costruzione della ferrovia si cela la speculazione terriera, ma quella che Ibsen tratteggia come una dinamica legata alla corrotta borghesia nordeuropea, è purtroppo riconducibile anche all’Italia di oggi, quotidianamente aggredita dal cemento dell’edilizia selvaggia che ingoia vaste aree verdi, dall’incuria e dall’inquinamento.
La devastazione del paesaggio, inestimabile patrimoni nazionale, è il prezzo che paghiamo, nell’indifferenza, e con la connivenza, della politica. Politica che finisce anch’essa nel mirino di Ibsen, che la accusa di essere un sistema consociato con l’economia, buono a mantenere i privilegi già acquisiti delle classi dominanti. In sintesi, ancora una volta ci si ritrova l’Italia dei nostri giorni. Al centro della vicenda, il Console Bernick (Lavia), un uomo all’apparenza un uomo corretto, potente e rispettabile, che vive in realtà da oltre quindici anni una vita di inganni.
Ha infatti sedotto e abbandonato una giovane attrice che è morta in seguito al dolore dell’abbandono, e ne ha lasciato ricadere la colpa sul fratello minore di sua moglie Betty, Johan, emigrato subito dopo in America con la sorellastra Lona. Questa, interpretata da una Federica Di Martino particolarmente ispirata, è l’avventuriera giramondo che torna dall’America, con quell’aria di super-femmina che sarebbe a suo agio tanto in un vauxhall quanto in un bordello, ed è accostabile alla Zuleika Dobson dell’omonimo romanzo del londinese Max Beehrbom.
È lei la coscienza critica dell’universo femminile, in quegli anni scosso e meravigliato dai primi passi dell’esperienza inglese delle suffragette. Seguiamo quindi Bernick impegnato a tessere le sue trame speculative, conteso fra gli interessi di armatore e di costruttore di ferrovie, e assediato dal timore che Johan riveli la sua responsabilità nella vicenda dell’attrice. Intorno, come un coro da tragedia greca, si muove tutta una piccola corte di adulatori, precettori, soci d’affari, e di donne, di famiglia o legate per amicizia, queste ultime le sole - forse per reale volontà, forse per ingenuità -, ad essere veramente pure, e a credere di vivere in una società giusta e moralmente sana.
Scuola, imprenditoria, e famiglia (quest’ultima affidata alle cure delle donne), sono i pilastri sui quali, nella mentalità borghese, si regge la società. A ben guardare, sono marci già alla base, poiché dominati dal conformismo, dall’ottusità, dall’avidità. Ad accorgersene è Lona, probabilmente, l’unica veramente libera fra i personaggi della pièce, e che riuscirà a mettere in crisi l’imperturbabile Bernick, il quale, con una faccia di bronzo che ricorda da vicino quella dei politici dei nostri giorni, ammette le sue colpe.
Ibsen lascia in sospeso de il popolo, che lo acclama come un benefattore per la città, creda o meno alle sue parole. La verità vi farà liberi: solo che la verità va saputa cercare e vedere. Lavia propone uno spettacolo maturo e sontuoso, autentico affresco di una società e di un’epoca, con le sue contraddizioni e il suo ingenuo ottimismo positivista. Tuttavia, come accennato di sopra, l’eccessiva lunghezza del testo lo penalizza in dinamicità. E, forse, si sarebbero potuti sviluppare maggiormente i ruoli femminili principali, per sottolineare quel ruolo di custode dell’onestà, della fedeltà, del vero amore, e di coscienza critica, che ha la donna, e che Ibsen lascia invece fra le righe.
Comunque, lo spettacolo si può leggere anche come un omaggio all’universo femminile, forse il solo che possa redimere un’umanità dedita soltanto al culto del denaro e del potere. A parte alcune piccole incertezze nella recitazione, dovute alla tensione della prima e all’obiettiva difficoltà di ricordare perfettamente un testo così lungo, Lavia offre un’interpretazione intensa e generosa, dando vita a un personaggio avido e affascinato dal potere, eppure gattopardescamente infelice. Alla chiusura del sipario, applausi entusiasti, e crediamo abbastanza sinceri nonostante qualche sospiro in platea, per uno spettacolo che prosegue su una caustica linea di teatro civile, che da qualche tempo sta interessando i palcoscenici italiani innescandovi un utile dibattito che si auspica possa servire ad arricchire la coscienza critica degli italiani. Niccolò Lucarelli