Cinquant’anni d’America secondo Andy Warhol

La pace nel mondo, la parità fra i sessi, la lotta al razzismo, erano temi che negli anni Sessanta scossero profondamente la società americana.

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
11 ottobre 2013 19:38
Cinquant’anni d’America secondo Andy Warhol

PISA - Un’America che scopre il cibo in scatola, la rivoluzione sessuale e la contestazione giovanile; una società di massa non scevra di contraddizioni, dove l’entusiasmo sembra però la parola d’ordine per affrontare le nuove sfide. La pace nel mondo, la parità fra i sessi, la lotta al razzismo, erano temi che negli anni Sessanta scossero profondamente la società americana. Dopo le grandi mostre dedicate ai tanti artisti del Novecento che hanno rivoluzionata la storia dell’arte lontano da Parigi, adesso è il momento della vetrina dedicata a Andy Warhol, senza dubbio il prodotto più interessante che sia uscito dall’altra sponda dell’Atlantico negli ultimi cinquanta anni.

Pisa si conferma quindi città attenta a riscoprire l’arte d’avanguardia, dando seguito a una fortunata politica culturale che mira principalmente a incuriosire e interessare il pubblico più giovane. Andy Warhol. Una storia americana - curata da Claudia Zevi e Walter Guadagnini e ospitata nelle prestigiose sale di Palazzo Blu -, ripercorre un’avventura artistica che ha saputo sperimentare svariate tecniche espressive, dalla fotografia alla pittura alla cinematografia, focalizzando l’attenzione del pubblico sull’indagine psicologico dell’artista, la cui iconografia ha saputo individuare le fondamenta dell’America contemporanea.

Perché la società che nacque negli anni Sessanta, fondamentalmente non è ancora cambiata molto. Sin dal titolo, la mostra dà la cifra del ruolo ricoperto da Warhol, osservatore e narratore di mezzo secolo di storia artistica e sociale degli Stati Uniti d’America. Il glamour, la moda, lo star system, la pubblicità, il denaro, la politica e la cronaca nera, tutti aspetti della vita quotidiana che l’artista americano passa sotto la sua personale lente d’ingrandimento, sviluppando un’arte la cui ricerca è votata più alla sociologia che all’estetica.

All’origine di un lavoro sciolto da ogni vincolo intellettuale, si cela in realtà un artista impegnato per sé stesso, a vivre sa vie, che è poi, riecheggiando Oscar Wilde, l’omaggio più alto che si possa fare all’arte. La sua produzione artistica può essere letta come un romanzo, e Warhol, così attento al personaggio, del romanzesco ha certamente l’allure, apparentabile a quella di un Gatsby meno romantico e più affarista, ma non per questo meno intenso, dalla vita analogamente avventurosa segnata da spiacevoli avventure con l’altro sesso. Biografia a parte, Warhol ha “cantata” la società dei consumi, dell’effimero, della luce che brilla solo per pochi istanti, nella quale tutti sognano di essere Marilyn Monroe o Mick Jagger (straordinari i loro ritratti in esposizione), di abitare nel Village e bere champagne allo Studio 54.

Dalla splendida, patinata mostra pisana, emerge il fascino ambiguo e pericoloso di una società che celebra(va) se stessa, persino i propri lutti, come la drammatica scomparsa di Kennedy nel ’63. Tutto fa spettacolo, fino a quando non si spengono le luci. Il problema è capire come e perché si spengono. “Non ho mai capito perché, quando si muore, non si svanisce e basta”. Un epitaffio/sberleffo, la cui vena crepuscolare tradisce l’origine esteuropea dell’artista, e che riassume in modo paradossale la sua visione dell’arte e della società; alla stregua di un qualsiasi oggetto che la società dei consumi ci permette di acquistare, e che gettiamo via quando usurato, anche la vita dovrebbe ridursi a semplice polvere, come fosse un qualsiasi bene di consumo.

Disgraziatamente acquistabile una volta soltanto. Osservazione amara e appunto paradossale, ma che chiarisce abbastanza bene perché la società contemporanea è esattamente così. La serie della zuppa Campbell, il detersivo Brillo, la marcia di Birmingham, James Dean, Marilyn Monroe, la sedia elettrica e le pistole; sfaccettature di un’America conformista e puritana, ma anche trasgressiva e ribelle. Nel segno, comunque, della giovinezza, della quale Warhol subiva il fascino. E la sua Factory era la meta preferita di chi, giovane artista o sfaccendato che fosse, pensava di avere qualcosa di nuovo da dire.

Fra i tanti che l’hanno frequentata, la sfortunata Edie Sedgewick e la più sbrigativa Valerie Solanas, assieme a Jane Holzer e i Velvet Underground. L’attività di artista di Warhol ha interessato anche l’ambiente del rock, avendo disegnate le copertine di Sticky Fingers e The Velvet Underground, album che restano per tanti motivi pietre miliari della storia della musica. Una mostra completa, con fotografie, dipinti, copertine di Interview, ritratti e citazioni, che rende il doveroso omaggio a un genio del Novecento.

La società che lui ha saputo prevedere, e a cui ha data una spinta perché si realizzasse, esiste ancora oggi, rarissimo caso di compenetrazione effettiva fra arte e vita quotidiana. Una conditio sine qua non perché il mercato dell’arte fosse rivitalizzato, con il rischio, forse non voluto da Warhol, che se tutto è arte, può anche accadere che l’arte non sia niente. Incidente di percorso? Provocazione? Verità? Solo il diretto interessato potrebbe rispondere. Realizzata in collaborazione con la collaborazione dell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh, la mostra è visitabile dal 12 ottobre al 2 febbraio 2014.

Tutte le informazioni su orari e biglietti al sito www.mostrawarhol.it. Niccolò Lucarelli

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