di Niccolò Lucarelli FIRENZE- Dopo il riallestimento del Corridoio Vasariano, che espone la collezione di autoritratti del Novecento, prosegue agli Uffizi il percorso dedicato a questa particolare forma d’espressività artistica, poetica autobiografia di forme, ombre e colori, che, con maggior intimità della fotografia, ritrae quella luce dell’anima attraverso la quale l’artista parla di sé, delle sue ambizioni e angosce, dei suoi dubbi e spavalderie. Una scelta espressiva particolarmente coraggiosa, un mettersi a nudo davanti all’osservatore, che esprime quasi sempre un’intensità tanto intima da comunicare una certa qual commozione. Gli autoritratti ungheresi degli Uffizi, è la mostra allestita nei suggestivi spazi di San Pier Scheraggio - antica chiesa di dantesca memoria -, che si inserisce nelle celebrazioni dell’amicizia fra Italia e Ungheria per l’anno 2013, e si lega idealmente alla mostra Mattia Corvino e Firenze ospitata presso la biblioteca di San Marco. L’esposizione, dedicata alla memoria di Miklós Boskovits - noto storico dell’arte ungherese scomparso nel 2011 -, presenta ventitre opere della Collezione degli autoritratti della Galleria degli Uffizi, la maggior parte delle quali acquisite tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
Un’affascinante panoramica sui protagonisti dell’arte ungherese dell’ultimo secolo e mezzo, con i suoi esponenti della Mitteleuropa asburgica che sanno esprimere romanticismo, gentile crudeltà, pensoso erotismo, assieme a un’ineffabile dolcezza, la stessa espressa nelle fotografie di ambiente parigino del loro conterraneo Brassai. Di quanto sopra, è mirabile ed emblematico esempio l’autoritratto di Eliza Nemes Ransonnet-Villez artista e nobildonna d’ineffabile eleganza unita a un’enigmatica bellezza.
Alla sopravvivenza delle tradizioni accademiche, che pur permeavano l’arte ungherese dell’ultimo quarto dell’Ottocento, Nemes unisce la spontaneità della civetteria femminile, riscontrabile nella posa della mano destra che sfiora il mento, nelle labbra socchiuse, nel nastro di seta di un azzurro chiaro che le cinge il collo. La severità della veste nera risalta contro lo scarlatto dello sfondo, e lo sguardo grigio-azzurrro crea un’impercettibile aura di malizia femminile. Con Pál Szinyei Merse, l’ autoritratto segna la sintesi perfetta dell’armonia fra il paesaggio naturale e la figura umana.
L’artista appare a mezzo busto, in abito da gentiluomo di campagna, con alcune betulle alle spalle, tipico albero dell’Europa del Nordest, e sullo sfondo prati e colline. Un paesaggio quieto ma suggestivo, che ricorda la tradizione settecentesca dei pittori inglesi. Una certa influenza delle avanguardie pittoriche del primo Novecento è rintracciabile nell’autoritratto di István Csók, che nell’atmosfera e le figure sullo sfondo ricorda Matisse e il movimento Fauve. Vero soggetto della tela, tuttavia, non è l’autore, bensì le due figure femminili, diretta citazione de I due idoli, dipinto datato 1909.
L’autoritratto diviene pretesto per aprire ancora una volta il discorso sulla tormentata ricerca dell’elemento erotico, esemplificata appunto nella donna, ritratta da Csók sia in veste di santa, sia in veste di prostituta. Suggestivo e inquietante, l’autoritratto di Árpád Sándor, artista misterioso del quale, pur essendo vissuto nel Novecento, si hanno scarsissime notizie, a cominciare dall’esattezza del nome. Esile e pallido outsider della pittura internazionale, di lui colpisce lo sguardo di ghiaccio, che sembra sostenere un universo di angosce e passioni.
Una piccola, intelligente mostra, nella quale attraverso i volti degli artisti, il visitatore entra nella complessa mentalità di un popolo, quello ungherese, avvolto nel fascino crepuscolare di vicende storiche tragiche e romantiche insieme, che hanno per sfondo paesaggi naturali d’incomparabile, aspra bellezza. La mostra, curata da Ildikó Fehér e Giovanna Giusti, è visitabile dal martedì al venerdì, in orario 10-17, fino al 30 novembre. Ingresso gratuito.