di Nicola Novelli Direttore responsabile di Nove da Firenze La ricetta è nota. Ce la stanno ripetendo a livello comunitario almeno da due anni ininterrottamente. Pur di non accettare i consigli della Commissione Europea Silvio Berlusconi ha preferito perdere Palazzo Chigi. Adesso le raccomandazioni di Bruxelles si trovano nei programmi di molti partiti, oltre che in quello del Governo Monti, ma nessun partito ha il coraggio di raccontare in maniera sincera il percorso di riforme e cambiamenti che la proposta UE richiederebbe.
Il paradosso è che per un sistema bloccato come il nostro la via dell'integrazione comunitaria non è solo la soluzione della crisi economica, ma anche il migliore modo di rendere l'Italia un paese più equo, moderno e solidale. E' sorprendente come anche parte delle generazioni italiane più giovani manifestino gli effetti di una sorta di educazione alla “paura del cambiamento e delle riforme”. Tanto che i pochi che in politica propugnano rottamazione e alternanza della classe dirigente rischiano di essere guardati con perplessità e diffidenza persino da coloro che avrebbero tutto l'interesse a sostenerli. Eppure la Commissione Europea è stata chiara.
I fattori caratterizzanti la società italiana sono: 1) l'assenza di crescita di produttività del lavoro; 2) il basso tasso di occupazione femminile (specie nelle giovani famiglie con figli) e giovanile (a causa di una complicata transizione tra istruzione e lavoro); 3) l'elevato tasso di abbandono scolastico e la scarsa attenzione alla formazione e all'aggiornamento lavorativo; 4) la struttura del sistema fiscale sbilanciata sulle imposte sul lavoro. Con una peculiarità tutta nazionale: il sistema industriale italiano ha continuato a perseguire un mix produttivo in disperata concorrenza con i paesi in via di sviluppo, nonostante il declino della produttività a causa dei costi relativamente elevati, l'eccessiva regolamentazione dei mercati, la diffusa corruzione della burocrazia pubblica, l'inefficienza della giustizia civile. Non ci sono alternative: senza una nuova classe politica in grado di convincere il proprio elettorato ad accettare e attuare riforme in cambio di sviluppo, la crisi italiana è ben lontana dall'essere risolta.
E la sfida non consiste nell'introdurre riforme di sistema nel programma di governo, ma nella capacità di realizzarle davvero in armonia tra parlamento e società civile. Come dimostra lo stallo nell'azione del Governo Monti a cui, dalla primavera scorsa, l'amplissima maggioranza parlamentare non è in grado di assicurare un sostegno coerente ed efficace. Ancora a luglio 2012 la Commissione Europea ha raccomandato al governo italiano un programma in sei punti: 1) obiettivi di deficit e debito per la finanza pubblica; 2) efficiente sfruttamento dei fondi UE per ridurre la spesa pubblica nazionale; 3) incentivi per l'acceso dei giovani nel mercato del lavoro e la promozione di start-up; 4) sostegno all'occupazione femminile con supporti sociali e nuova contrattazione sindacale; 5) lotta all'evasione fiscale e spostamento della pressione sulle imposte indirette, riducendo esenzioni, detrazioni e privilegi di categoria; 6) liberalizzazioni e semplificazione normativa. Sono tutti obiettivi che il Governo Monti intenderebbe perseguire, se non avesse il freno tirato da una maggioranza parlamentare irrequieta e preoccupata per le prospettive elettorali dei partiti tradizionali, confermate dalle ultime consultazioni regionali.
Così, nonostante il risanamento di bilancio e la riduzione dei tassi di interesse, non abbiamo visto né privatizzazioni, né liberalizzazioni. Abbiamo assistito ad una significativa riforma previdenziale, in cambio della quale l'opinione pubblica avrebbe voluto essere compensata con una riduzione dei costi della politica e della burocrazia pubblica. E se i sindacati continuano a difendere le prerogative categoriali consolidate negli ultimi 40 anni, come è possibile perseguire quelle riforme che offrirebbero pari opportunità a donne e giovani? Quando si metterà mano poi al mercato dei servizi pubblici e agli ordini professionali? Quando la lotta alla corruzione e la riforma della giustizia civile? A novembre 2012 la Commissione Europea pubblica le proprie previsioni economiche d'autunno.
L'opinione pubblica italiana si sentirà ripetere gli stessi argomenti ribaditi ormai da anni dai Commissari UE. C'è finalmente nella nostra classe politica la volontà di trasformare le raccomandazioni di Bruxelles in atti concreti di governo da mettere in pratica nel 2013? O piuttosto l'attuale classe dirigente non è in grado strutturalmente di parlare la stessa lingua della Commissione e di condurre il paese verso il cambiamento? Perché non si può portare l'Italia fuori dalla crisi senza credere sinceramente nell'Agenda Digitale, senza combattere l'evasione fiscale e gli squilibri macroeconomici con gli strumenti del Six-pack, senza introdurre una governance coordinata della politica economica, interpretando coerentemente il patto si stabilità, senza sostenere con convinzione un nuovo modello dei mercati finanziari a livello comunitario. Ci sono in Italia politici con capacità e carte in regola per mettere in atto queste riforme? Noi speriamo sinceramente di sì.