di Donata Cappelli e Giuliano Gasparotti per Officine Democratiche 74 su 135: nel 2011 l'Italia conferma l'infelice posizione del 2010 del Global Gender Gap index stilato dal World Economic Forum: un report che misura le diseguaglianze di genere nei paesi del mondo. Una non-notizia che si ripete ogni anno. Il problema esiste, non c'è dubbio ma i tempi sono maturi per provare anche ad affrontarlo seriamente.
Sostenere, infatti, che la scarsa partecipazione delle donne al mondo economico-politico sia dovuto alla mancanza od alla inadeguatezza dei servizi sociali di sostegno alle madri è non solo riduttivo ma consolatorio. Nelle famiglie, il carico organizzativo di figli ed anziani, è spesso sbilanciato fortemente sulle donne, tuttavia la conciliazione della vita familiare con quella lavorativa è solo un aspetto di una questione ben più complessa. Asili nido più numerosi e meno costosi, flessibilità degli orari, agevolazioni del congedo parentale paterno: tutte proposte necessarie ma non sufficienti.
Basti un dato per tutti: negli Stati Uniti il periodo di maternità obbligatoria è di 6 settimane, di solito non pagate, e la presenza di donne nelle posizioni di comando è superiore al 20%. In Italia, tra maternità anticipata, obbligatoria, congedo parentale, e allattamento, si può arrivare a due anni di assenza totale dal posto di lavoro e la presenza di donne ai vertici della carriera è del 7%. Il nodo consiste nel fatto che continuando a tutelare tutti indiscriminatamente si rendono più deboli proprio coloro che si vogliono (passivamente) sostenere.
Vale per le donne così come per qualsiasi altro soggetto discriminato. Invece di valutare l'incentivo caso per caso, in Italia, lo si da a tutti, trasformando un sistema premiale in un diritto universale: quante donne, infatti, si adagiano su posizioni di ripiego, usando ed abusando di strumenti di sostegno? La verità, ben più amara, sta nelle radici culturali di un Paese che si adagia sulla rendita, ben poco competitivo. Se raffrontiamo il Global Gender Gap con il Global Competitiveness Index è chiarissima la stretta correlazione tra uguaglianza, competitività e produzione di ricchezza: ridurre le discriminazioni crea sviluppo e crescita.
Queste correlazioni, tuttavia, insistono su un fattore di dinamismo sociale e di merito ed è proprio su questo terreno che si registrano le fragilità culturali delle stesse donne italiane. Spesso scelgono le strade più facili e più comode (debolezza/responsabilità individuale) e tali scelte – ecco la combinazione perversa - sono confortate dalla comunità (debolezza/responsabilità collettiva) che riconosce alla donna sposata e madre comunque un ruolo sociale dignitoso e di tutto rispetto.
Basta fare un figlio per guadagnarsi, agli occhi della collettività, una legittimazione sociale e quasi un plauso. Non c’è bisogno d’altro perché è più che sufficiente ed accettato il ruolo di madre, meglio se sposata. L’affermazione professionale, la partecipazione alla vita politica o economica o culturale sono questioni marginali. Un cambiamento reale lo avremo, quindi, mettendo le donne nelle condizioni di poter creare qualcosa che non siano solo i figli, svincolando l'immagine femminile dal solo ruolo materno.