“Il pane toscano non ha bisogno di miglioratori. Ci vogliono lievito madre, farina di alta qualità e la voglia di proseguire la grande tradizione di un mestiere nobile e antico”. Le associazioni regionali di Confartigianato, Cna e Confcommercio alimentazione intervengono così nella querelle aperta dal servizio di Max Laudadio sui retroscena della panificazione, andato in onda addirittura in 5 puntate su “Striscia la Notizia”. Quanto basta per diffondere tra le persone l’idea che la chimica sia largamente diffusa nella panificazione. “Per quanto riguarda la sostanza del servizio di Laudadio siamo d’accordo – spiegano le associazioni dei panificatori -, perché l’uso di additivi per aumentare la lievitazione è un fenomeno che esiste, è consentito per legge ma quando cade negli eccessi andrebbe isolato ma non si può né generalizzare né alzare i toni.
Si rischia solo di creare un allarmismo ingiustificato”. E in effetti dopo la messa in onda dei servizi di Laudadio, il 20 e 21 ottobre scorso e poi ancora del 25 ottobre, anche nelle panetterie qualche cliente ha iniziato a chiedere notizie sull’uso o meno dei “miglioratori”. I miglioratori sono di molteplice composizione, ma essenzialmente sono raggruppabili in due tipi: quelli a base di enzimi e glutine, elementi già presenti in natura nella farina di grano tenero, e quelli con additivi chimici, da dichiarare tra gli ingredienti, che contengono emulsionanti, cioè sostanze che favoriscono l’inglobamento di aria e acqua in quantità maggiore.
In pratica, aiutano la lievitazione e aumentano il tempo di conservazione del prodotto finito. Vengono usati dai panificatori poco attenti alla qualità e nei processi industriali della panificazione, per tagliare tempo e costi di produzione; sono spesso presenti nei pani precotti e surgelati che si trovano nei supermercati, nei panettoni industriali, nel pancarré, ed in molti pani industriali a lunga conservazione. Al Nord se ne fa un uso più frequente, perché i miglioratori servono di più nei prodotti con aggiunta di grassi, come panini e baguette, o a base di farine forti come la ciabatta e le rosette, che nelle regioni settentrionali vanno per la maggiore.
In Toscana, invece, dove il nostro pane richiede farine più deboli, il ricorso alla chimica è molto limitato. “Ai nostri associati – confermano le associazioni di Confcommercio, Confartigianato e CNA - diciamo sempre di imparare bene il mestiere adottando le tecniche artigianali. È più utile conoscere la farina e le regole di lievitazione del prodotto che ricorrere alla chimica. Chi usa farina di qualità non ha bisogno di supplire alle carenze con gli artifici. Chi produce il pane toscano come tradizione comanda adopera lieviti naturali certo, il processo è più lungo, costoso e occorre impegnarsi di più: l’impasto con il lievito madre va lavorato due volte, la sera prima e poi il giorno in cui si fa il pane.
Ma il sapore che si ottiene non ha confronti”. Proprio in questi giorni Regione Toscana e Ministero stanno prendendo una posizione a favore della richiesta formulata dal Consorzio di Promozione e Tutela per l’ottenimento della D.O.P. (Denominazione D’Origine Protetta)”.