Il ministro della Funzione Pubblica Brunetta ha annunciato un piano per mezzo milioni di assunzioni nella pubblica amministrazione nei prossimi cinque anni, pari al numero di dipendenti pubblici che andranno in pensione, secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato. Il decreto legge 44 (Decreto Covid) sblocca circa 110.00 assunzioni quest’anno. Non solo. Il ministro ha annunciato il reclutamento di qualche migliaio di esperti da adibire alla progettazione, gestione, rendicontazione e realizzazione dei progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
In pratica, un meccanismo di reclutamento finalizzato al Pnrr del tutto speciale, un portale per contratti di tre anni più due per le figure professionali necessarie al Piano. Nessun concorso, dunque, per il reclutamento delle figure richieste dal Pnrr – che prevede risorse per 235 miliardi in sei anni – ma le amministrazioni sceglieranno la persona più adatta a seguire il singolo progetto confrontando, anche attraverso meccanismi di intelligenza artificiale, i curricula presenti su una grande piattaforma online e procederanno, poi, alla chiamata diretta.
Il ministro pensa a una sorta di “Linkedin italiano” dove ci saranno in concorrenza i curricula migliori di tutti i tecnici richiesti.
Tutto molto bello e all’avanguardia (un po’ come il “Netflix Italiano” preannunciato qualche tempo fa), senonché non sono infondate le preoccupazioni di chi vede, dietro la spruzzata di “intelligenza artificiale”, il riprodursi di antichi vizi italici come la chiamata diretta di personale nella pubblica amministrazione senza alcuna procedura trasparente. Non è da sottovalutare neanche il problema dell’impiego a tempo determinato di personale qualificato e della necessità, terminati i progetti del Pnrr, di procedere a forme di stabilizzazione di personale precario entrato senza concorso. Tutto già visto e che torna a ripetersi.
Che la pubblica amministrazione abbia bisogno di giovani e di figure professionali adeguate è certificato dalle nude cifre che attestano un’età media dei dipendenti pubblici italiani tra le più alte dei paesi più avanzati e mediamente una bassa qualificazione professionale. Ma il sistema di reclutamento ordinario congegnato per semplificare le procedure di concorso va a penalizzare proprio i giovani. Infatti, la riforma Brunetta per l’accesso ai concorsi pubblici, (art. 10 del nuovo D.L. 44/2021), introduce una preselezione per titoli ed esperienza che rischia di bruciare le speranze dei candidati più giovani. La formulazione della norma è di dubbia costituzionalità, e l’orizzonte temporale di applicazione appare indeterminato ed indeterminabile.
Approfondimenti
Probabilmente i giovani, già disincantati, non sono neanche interessati a una carriera nella pubblica amministrazione, come emerge da un recente sondaggio di Proger Index Research. Il 70% degli italiani tra i 25 e i 35 anni dichiara di non voler lavorare nella PA. Solo il 20% del campione si mostra interessato a prendere in considerazione un’occupazione nella PA. Ma le motivazioni sono disarmanti. Poco meno del 60% degli intervistati sceglierebbe la PA solo perché “entrare nella Pubblica amministrazione vuol dire avere un lavoro sicuro”. Motivazione comprensibile, soprattutto in questi tempi di fragilità e di incertezza, ma certo non è la spinta più forte per acquisire risorse umane impegnate nel “purpose” aziendale, come si direbbe nel sistema privato.
Il problema di fondo è che l’introduzione di nuove professionalità dovrebbe essere la conseguenza della riforma della pubblica amministrazione, non il punto di partenza. In 70 anni di storia repubblicana il dibattito sulla riforma della pubblica amministrazione è sempre partito dalla disciplina del pubblico impiego, reclutamento e ordinamento, mai dalle cause strutturali che la rendono disfunzionale e poco appetibile per le migliori professionalità. Domina ancora una cultura politica che vede nell’impiego di personale il fine ultimo, non il mezzo per avere servizi di qualità e regolazione efficiente. Pubblico impiego come grande ammortizzatore sociale.
Occorre però anche domandarci se ci possiamo ancora permettere questa politica. Inoltre, evidenze empiriche dimostrano che spesso massicci reclutamenti di personale pubblico provocano distorsioni del mercato del lavoro. Il saggio di due economisti, proprio in relazione alla scarsa efficacia dei programmi europei di sviluppo in Italia (De Blasio – Accetturo, “Morire di aiuti”, IBL edizioni), mostra che l’occupazione pubblica in tante zone d’Italia (non solo nel mezzogiorno) rispondeva (e risponde) a motivi di tipo puramente redistributivo, di sostegno cioè alle prospettive occupazionali delle aree sussidiate e non alla fornitura di servizi pubblici essenziali alla vita di un territorio.
La ricerca empirica mostra che sostenere l’occupazione locale attraverso l’occupazione pubblica aveva conseguenze altamente indesiderabili per le aree sussidiate: nella speranza di ottenere un più sicuro posto pubblico, i residenti preferivano non intraprendere percorsi educativi o attività di ricerca finalizzati ad un lavoro più produttivo. Veniva inoltre scoraggiata l’assunzione nei rischi impliciti nell’attività imprenditoriale.
Anche il Pnrr non si sottrae al medesimo approccio. Se è vero che la riforma della PA è individuata come la prima da realizzare al fine di conseguire «innovazioni strutturali dell’ordinamento, idonee a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività e, con esse, il clima economico del Paese», tuttavia anche nelle pagine dedicate alla riforma del P.A. la sensazione che si ricava è quella della fissazione di importanti obiettivi, cui si accompagna poca chiarezza su come conseguirli. Si potrebbe sintetizzare la parte sulla P.A. come “assunzioni tante, riforme chissà”. Sembra che l’aspetto centrale del Pnrr sia focalizzato sul percorso che si intende seguire per rendere effettivo il preannunciato turnover.
Volgendo lo sguardo al piano del funzionamento della P.A., si riscontra la maggiore vaghezza. Per il Pnrr, l’azione di riforma passa attraversano la liberalizzazione, la semplificazione, la “reingegnerizzazione”, l’uniformazione e la digitalizzazione delle procedure. Parole chiave che hanno popolato, in modo piuttosto sterile, relazioni e dibattiti negli scorsi decenni.
Del resto, nel 2019 e nel 2020 la UE (la Commissione ed il Consiglio) hanno indirizzato all’Italia una serie di raccomandazioni relative alla necessità di migliorare il rendimento della nostra amministrazione pubblica. Tali raccomandazioni sono state riprese dalle linee guida indirizzate all’Italia in relazione al Next Generation EU come le riforme orizzontali ed abilitanti per poter usufruire con profitto dei fondi del Next Generation EU. É noto che gli uffici della Commissione hanno reagito negativamente alla bozza di PNRR inviata in via informale agli uffici della Commissione al punto che il Presidente Draghi ha dovuto richiedere, in via del tutto irrituale, l’intervento della Presidente della Commissione Von der Leyen ad evitare una bocciatura ante litteram del piano italiano.
La mancata reazione positiva dell’Italia alle sollecitazioni della UE non è dovuta alla responsabilità del nostro livello politico né alla incompetenza dei nostri vertici burocratici. Si tratta della necessità di fare un salto di qualità e di cambiare il paradigma che, in maniera non consapevole, sta alla base della nostra pubblica amministrazione. Abbiamo un modello amministrativo, risalente alla legge Crispi di fine ‘800, non più adeguato. L’assenza di processi nella gestione delle funzioni pubbliche impedisce la realizzazione di una digitalizzazione reale dell’attività amministrativa. O peggio, la digitalizzazione forzata potrebbe tradursi in una cristallizzazione del caos vigente nell’amministrazione. La separazione tra gestione burocratica e contabile non consente una valutazione effettiva delle risorse utilizzate e prodotti realizzati.
Non credo che questo salto di qualità sia all’orizzonte. Accontentiamoci quindi delle prossime “infornate” di assunzioni pubbliche, di dimensioni tali come non si vedevano forse dagli anni ’80. Siamo un paese di nostalgici, in fondo.