Raramente i film biografici sono ben fatti. Spesso ci restituiscono personaggi quali scrittori , o pittori ai limiti di un bozzettismo grottesco. Esemplare in tal senso la recente biografia filmica di Modigliani “ i colori dell’anima “ dove la personalità del pittore livornese era risolta negli aspetti , più piatti e corrivi . Non mi piacciono le biografie filmate, soprattutto quando dedicate a personaggi chiaramente antipatici come Truman Capote,lo scrittore americano che con “ A sangue freddo”, inventò un modo nuovo di scrivere e vinse il premio Pulitzer.
Un personaggio ambiguo , insicuro ,pieno di tic, che ci viene restituito nel film,se si ripensa alle fotografie e ai cinegiornali dell’epoca dove appariva Capote , con le stesse pose, le stesse affettate movenze da omosessuale. Persino la stessa voce chioccia, in eterno falsetto . Il film non si ferma , per fortuna alla grandissima, «prova d’attore». di Philip Seymour Hoffman e non intende essere una sorta di biografia a tutto tondo dello scrittore .
La sceneggiatura di Dan Futterman si concentra,infatti sulla genesi di "A sangue freddo".1959, Truman Capote ritaglia dall'ultima pagina del New York Times la notizia del brutale omicidio della famiglia Cutters, facoltosi coltivatori del Kansas. La sua idea è quella di indagare le reazioni della piccola comunità agricola di fronte ad un delitto tanto efferato. L'incontro con i due criminali, Perry Smith e Dick Hickock, fa intuire a Capote le potenzialità della storia; non più un semplice articolo ma un libro innovativo, il primo "no-fiction novel", in cui usare le tecniche del romanzo per raccontare fatti reali, dove mostrare lo scontro tra due Americhe, quella sicura e protetta dei Cutters e quella violenta e amorale dei suoi assassini.Il fascino intellettuale che Capote sfodera per ingraziarsi uno dei due assassini, quello più tormentato e indifeso, diventa la cartina al tornasole di una condizione – quella dell’intellettuale – che non è così limpida e neutra come Capote forse crede.
L’osservatore, quando non è superficiale, non è mai equidistante dalle cose. Non può esserlo. Con tutto quello che questo comporta, non solo rispetto alla propria emotività, ma soprattutto rispetto a quella di chi ti sta di fronte. Intenso e coinvolgente, Capote è una riflessione sulla manipolazione in nome dell’arte e sui limiti da non superare. Una pellicola diretta dal pressoché esordiente Bennett Miller con protagonista uno straordinario Philip Seymour Hoffman capace di dare vita ad un personaggio al tempo stesso fascinoso, ma non simpatico, né tantomeno positivo.
Una figura controversa, ambiziosa, ma anche fragile nel suo rapporto di presunta amicizia con un assassino con cui sente di avere diversi punti in comune.
Alessandro Lazzeri