FIRENZE - I Ministeri, le Camere, il Re a la sua Corte, e ancora Ricasoli e Cairoli, i balli, le feste, e le trasformazioni urbanistiche che scossero la polvere dell’età medievale. Questo fu la città di Firenze negli anni in cui ricoprì il prestigioso ruolo di Capitale del Regno d’Italia, nato appena quattro anni prima; a 150 anni dalla proclamazione, si celebra un periodo di grandi cambiamenti per la città, attentamente ricostruiti nella mostra Una Capitale e il suo Architetto. Eventi politici e sociali, urbanistici ed architettonici. Firenze e l’opera di Giuseppe Poggi, curata da Piero Marchi, che offre la possibilità ai fiorentini, e agli italiani, di riscoprire una cruciale fase di passaggio, architettonico e politico, del Paese.
Nonostante le polemiche, talvolta aspre, che accompagnarono l’opera di Giuseppe Poggi, a distanza di tanti anni possiamo affermare che l’architetto fu una figura innovatrice in città, cui seppe dare un nuovo respiro, in linea con le tendenze urbanistiche europee contemporanee, attutendo quell’aura medievale che, affascinante da un lato, dall’altro poco si confaceva alla Capitale di un Regno ambizioso di progresso qual era, almeno a parole, quello d’Italia.
Approfondimenti
Suddivisa in dodici sezioni, la mostra sviscera persino l’aspetto più minuto di quest’avventura sociale, politica e culturale, che ruota attorno a Giuseppe Poggi, il quale non ne fu tuttavia l’unico protagonista. È infatti interessante scoprire i retroscena, il come si giunse alla designazione della Capitale a Firenze, una mossa effettuata nella prospettiva di prendere un giorno Roma. Ma andiamo con ordine; il 15 settembre 1864, un’apposita convenzione stipulata a Parigi tra l’Italia e la Francia, regolava la smobilitazione delle truppe di Napoleone III dallo Stato Pontificio, convenzione che sarebbe divenuta effettiva al momento della decisione di trasferire la Capitale italiana da Torino ad altra città, cosa che venne decisa con apposito decreto il 18 settembre individuando appunto Firenze, e questi affascinanti documenti sono visibili appunto all’Archivio di Stato, accanto a una scelta di lettere e documenti vergati dai principali personaggi della politica e della cultura dell’epoca, fra cui Giuseppe Mazzini - che si dichiarò contrario -, e Bettino Ricasoli, il “Barone di ferro”, cui invece piacque non poco la decisione governativa, in piena sintonia con Raffaello Lambruschini.
E anche l’opinione pubblica, del popolo dei commercianti in particolare, era favorevole al passaggio di grado. La “Firenzina” aveva fiutato l’affare, e si preparava ad accogliere la numerosa compagine governativa, oltre alle ambasciate estere, e a tutti gli uffici pubblici relativi. Impresa non da poco, per una città che ancora era racchiusa nella terza cerchia muraria, quella, per intendersi, iniziata nel 1284 e conclusa a metà del XIV Secolo. Di questa sopravvivono oggi le splendide vedute del Carocci, del Brazzini, del Gherardi e di Odoardo Borrani, le cui stampe, tele, disegni e incisioni costituiscono la sezione introduttiva della mostra, prima di cedere il passo ai documenti di cui sopra.
Era, la “Firenzina” granducale, una città a misura d’uomo, della quale Collodi ci ha lasciate argute e interessanti descrizioni, e che, partiri da poco i Lorena, si trovò ad ospitare i Savoia, forse non i più adatti per apprezzare una cultura profonda nei concetti ma parca nelle forme, e che aveva avuto nei Medici illuminati e accorti mecenati. Ma il passato non ritorno, per cui Palazzo Pitti divenne residenza reale, e il suo nuovo aspetto lo si ammira nella terza sezione, dedicata appunto alla Corte sabauda; incisioni, tele a olio, disegni e acquerelli ne mostrano gl’interni, il nuovo edificio della Meridiana, oltre a due illustrazioni tratte da Il giornale illustrato, che documentano l’arrivo a Firenze di Vittorio Emanuele II. Un rapporto, fra questi e la città, non particolarmente sentito, tanto che a Palazzo il Re stava poco, preferendo la Tenuta di San Rossore a Pisa, o la Palazzina della Livia, adiacente Piazza San Marco e dimora di Rosa Vercellana.
Uno scarso interesse per la città, che si tradusse anche negli anni difficili vissuti dall’Opificio delle Pietre Dure, ormai non più manifattura di corte, e che ridusse non poco la produzione, come dimostra la sezione a esso dedicata.
Ma Firenze aveva altro cui pensare, nei frenetici giorni del trasferimento in città della compagine governativa, che contava migliaia di persone, funzionari e famiglie comprese. L’attività politica che dal ’65 in poi si svolse in città è documentata dalle stampa delle aule della Camera e del Senato, rispettivamente nel Convento di San Firenze e nel Salone dei Duecento di Palazzo Vecchio, oltre ai resoconti dei quotidiani dell’epoca. Veniamo così a sapere, ad esempio, che il Ministero delle Finanze si trovava in Palazzo Medici Riccardi, gli Interni in Santa Caterina, quello di Grazia e Giustizia a Palazzo Non Finito, e il Consiglio di Stato a Palazzo della Crocetta.
Il trasferimento fu anche questione logistica non da poco, che implicò un grande movimento di uomini e merci (per le spese del quale gli impiegati dell’Ammnistrazione Regia ottennero regolare rimborso), stigmatizzati con ironia tutta toscana in una vignetta del Lampione, che ha per protagonista la maschera di Stenterello.
Dopo un interessante excursus nel periodo leopoldino - in una Firenze ancora medievale -, e negli scatti fotografici dei Fratelli Alinari, la mostra entra nel vivo approfondendo la figura dell’architetto Giuseppe Poggi, colui che fu l’artefice delle trasformazioni urbanistiche della nuova Capitale, e del quale la mostra traccia il ritratto con rigore umanistico misto ad affetto, attraverso i suoi strumenti di lavoro, i taccuini dove spiccano le pagine dedicate ai familiari, lettere a questi ultimi, oltre ai bozzetti dei progetti e ai volumi accademici da lui scritti.
Il progetto generale per l’ampliamento della città, fu presentato esattamente centocinquanta anni fa, il 31 gennaio 1865, e conteneva i provvedimenti atti a soddisfare le linee guida della Commissione Comunale, fra cui l’abbattimento delle antiche mura urbane. Cominciavano a prendere vita i viali esterni, pensati sul modello dei Grands Boulevards parigini o berlinesi, segno dell’attenzione di Poggi agli sviluppi dell’urbanistica europea. Va però precisato che le funzioni dei boulevards, non erano prettamente estetiche, quanto di prevenzione, con la loro larghezza, contro l’erezione delle barricate (non dimentichiamo che siamo a ridosso del famigerato ’48, e gli animi popolari non si sono ancora del tutto placati).
Si possono così ammirare i progetti relativi, e le fotografie dell’epoca prima dei lavori, sull’avanzamento dei lavori, e alla loro conclusione. Particolare attenzione Poggi la dedicò anche al verde pubblico, quale importante elemento dell’estetica urbana, concentrandosi in particolare sul Parco delle Cascine, sul Viale dei Colli e il giardino antistante la Fortezza da Basso. In particolare il Viale dei Colli costituisce un alto esempio di architettura paesaggistica su cui s’incastona il Piazzale Michelangelo, belvedere dall’ineffabile, poetico fascino.
Anche in questo caso, una ricca scelta di fotografie, accanto ai documenti tecnici, permette di comprendere l’impatto estetico che queste opere ebbero sulla città. Firenze poteva adesso vantare un’atmosfera di ampio respiro, sulla scia delle altre capitali europee, pronta ad accogliere la nobiltà e l’alta borghesia dei funzionari statali, oltre ai numerosi ambasciatori stranieri. Restava da risolvere l’annoso problema dell’Arno, di cui nel 1865, ancora si ricordavano le ultime due rovinose piene, quella del ’44, e quella del ’64 (visibili in due stampe dell’epoca).
Poggi lavorò alla regimazione delle sue acque, creando le passeggiate lungo il fiume, che facilitavano il traffico delle carrozze, servivano da luogo di svago, e appunto con il loro muraglioni contenevano le piene.
In quanto alla razionalizzazione del traffico ferroviario, fallito il tentativo di concentrarlo tutto in un’unica stazione (progetto troppo avveniristico per l’epoca), Poggi riuscì soltanto, attraverso il suo collaboratore Giuseppe Laschi, a migliorare i collegamenti viari fra le stazioni Maria Antonia e di Porta alla Croce.
Anni frenetici, quella di Firenze Capitale, anni che videro una città cambiare il suo volto, che, se da un lato perse quelle “mura inargentate” cantate da Lapo Gianni, dall’altro si arricchì di strade, piazze, viali lungo l’Arno, giardini, che le dettero il tono adeguato al suo ruolo di prima città del Regno, e la sua nuova bellezza affascinò non soltanto le delegazioni estere, ma anche i numerosi intellettuali che vi accorsero con entusiasmo, radunandosi al Gabinetto Viesseux o negli informali circoli letterari che nascevano nei tanti caffè, e dei quali Collodi ci ha lasciato memorabili testimonianze.
A fronte di tanta bellezza, pensata e realizzata da Giuseppe Poggi e i suoi collaboratori, un’amara sensazione nasce guardando quegli scempi urbanistici che hanno deturpata Firenze a partire dal secondo Dopoguerra, quando non si è ragionato in termini di rispetto del passato, ma si è lasciato che la città si espandesse più o meno regolarmente, soffocata dal cemento di alienanti periferie. In retrospettiva, si è più o meno volutamente lasciata da parte quella dimensione umana che Poggi aveva tenuta ben presente, lavorando con intelligenza e coscienza. Perché l’architettura è anche, e soprattutto, questo.