di Caterina Falotico
Chi ha letto i precedenti libri di Mimmo Sammartino e si trova fra le mani quest’ultimo, Nostra Regina dei burroni e delle mosche (Exorma, 2024) non può non pensare all’opera matura di uno scrittore che, riconoscendosi, si fa riconoscibile: un marchio, una cifra, un segno di appartenenza. È di Sammartino la capacità di fiutare l’aria che tira, lo spirito del tempo – lo agevola il suo mestiere di giornalista – e di trasformare un evento, un dato reale in una favola, in cui la dimensione spazio-temporale si sgretola e il messaggio si universalizza.
È accaduto con Un canto clandestino saliva dall’abisso (2006), dedicato alla tragedia di Porto Palo del 1996 che dà la stura a un canto, a un racconto lirico dove la prosa è poesia e viceversa. Oggi in un clima di guerra nasce quest’inno alla misericordia alla fratellanza e alla disobbedienza civile; un’epopea senza eroi che ha per protagonista l’asina Regina che si racconta in prima persona. Arruolata al fronte con il suo padrone, vive l’esperienza della guerra nella battaglia di Gorizia, tra il 6 e il 17 agosto del 1916, il punto più alto di una carneficina che fece più di centomila morti fra giovani italiani e austriaci.
Quando l’autore parla di una storia di amicizia, di terra e diserzione, la pone di fatto nel solco di quel pensiero meridiano fraterno ai viventi e per sua natura pacifista, in quanto la povertà e il bisogno ingenera nella comunità meccanismi di solidarietà funzionali alla sopravvivenza. L’etica che fa da supporto al racconto proviene dal mondo rurale arcaico, dalla terra appunto e dai suoi valori, piuttosto che dalla moderna elaborazione del concetto di non violenza.
Ogni storia, favola o apologo che sia, è sempre una storia di formazione e anche questa lo è. Le vicende dell’asina Regina sono nettamente scandite da un “prima” e da un “poi”, separati da quella linea d’ombra rappresentata dall’esperienza della guerra e della ferocia umana. Il mondo precedente è costituito da ciò che è noto e intimamente ci appartiene; a ribadirlo è un capitolo intitolato perentoriamente Conosco, un verbo usato in senso assoluto, senza oggetto perché tutto di quel mondo è familiare e percepito come immutabile.
È la terra d’Appenino, cantata da Sammartino in altri suoi libri da Vito ballava con le streghe (2004) al Paese dei segreti addii (2016), che torna con la voce dell’asina protagonista in cui l’autore si rispecchia: «Appartenevo a questo ritaglio di Appennino, alle sue salite che tolgono il fiato, alle pieghe di questo villaggio dai graffi lattiginosi. Ed essi mi appartenevano. Pietra su pietra. Occhi su occhi. Silenzio su silenzio». È l’età dell’innocenza evocata attraverso i giochi complici dei bambini che gareggiano a saltarle in groppa o le tirano provocatoriamente la coda, mentre lei, mansueta e docile, li lascia fare, «perché hanno così poco tempo per restare bambini».
A quel mondo appartengono le falcate spensierate lungo i sentieri consueti, il mutare delle ore del giorno e il passare delle stagioni, i profumi delle erbe e i colori dei fiori, le carezze del padrone e la biada sicura, le acque delle sorgenti e i dialoghi senza risposta con la luna. Il tutto è raccontato con un linguaggio lirico come si addice a un mondo edenico. Poi arriva il fronte, ma anche lì Regina trotta e continua a portare pesi, ubbidiente alle leggi di natura, finché sono viveri che recano sollievo al dolore dei combattenti, ma quando le caricano addosso armi e munizioni, s’impunta e diserta.
Patisce la prigionia e conosce quel mondo a rovescio, fatto di crudeltà e di cattiveria, di odio e di violenza, di sopruso e di dominio. È la guerra lo sprofondo nell’ignoto: «Cercai dio ma quella volta proprio non riuscii a trovarlo. Trovai invece il carnaio degli uomini. Macelleria di corpi svuotati d’ogni spirito e bellezza. Lacerati, mutilati, incattiviti, attoniti dinanzi a tutto quell’orrore. Increduli di fronte all’insensatezza della strage. Io quella volta trovai gli uomini».
Nel capitolo dedicato alla prigionia, lo scrittore mette in scena i meccanismi di abiezione ricorrenti in ogni contesto concentrazionario ieri come oggi, ma lo fa con levità e talora con ironia: il cavallo Sergente – azzoppato in battaglia e suo malgrado allontanato dal fronte – vede nella morte del somaro Camillo un vantaggio per sé e per la propria sopravvivenza; il prigioniero Otto, a discapito del suo nome, si mostra refrattario alla matematica quando si tratta di dividere con altri prigionieri la porzione di cibo assegnata. Mantenendo la specularità vigente nella favola che lega insieme vizi e virtù di uomini e animali, il dolore inconsolabile dell’asina Sabella per la morte dell’amato Camillo si rispecchia in quello del giovane ufficiale Fritz, responsabile della resa del proprio reparto.
In questo mondo a rovescio l’umanità, si fa per dire, sta tutta dalla parte degli animali e fra di essi dei più umili: sono i somari disertori quelli che si divertono di tanto in tanto a scambiarsi gli accenti dei loro differenti dialetti, in un gesto che è accoglienza e riconoscimento dell’altro, ed è Regina a provare vergogna quando si sorprende a chiedersi se quel tal soldato, martoriato e irriconoscibile, sia un italiano o un nemico. Regina impara che anche negli inferni più indicibili si può incontrare uno spiraglio di luce.
Più si procede nel racconto più l’asina protagonista assurge a simbolo cristologico: dopo essersi liberata dalla prigionia, dopo giorni di faticoso cammino con in groppa il padrone morente, Regina fa il suo ingresso nel paese fra il giubilo festante della folla che vede in lei la salvatrice, la messaggera di una buona novella. Ciò non stupisce se solo si pensi alla sacralità di questo animale, presente nella storia delle religioni e nei riti iniziatici fin dai tempi più remoti: dagli antichi Egizi all’asino d’oro di Apuleio, dall’asino nero di Maometto all’asina biblica di Balaam, fino ad arrivare all’asino che vola, il Sud del Sud dei santi, in cui si identifica l’umile frate francescano, San Giuseppe da Copertino, e il suo straordinario interprete Carmelo Bene.
L’autore dedica a questo argomento un capitolo informativo dal titolo Asini magnifici, ragguagliandoci anche sulla fortuna letteraria di questo animale. A suggello del suo racconto, Sammartino pone la poesia di Francis Jammes intitolata Preghiera per andare in paradiso con gli asini: «Che io Ti appaia in mezzo a queste bestie, / che per questo mi piacciono: che abbassano la testa / dolcemente e si fermano giungendo le loro zampette / in un modo dolcissimo e che ti fa pietà».
Su tutte le ricorrenze letterarie, s’impone con forza una scrittrice a suo modo scandalosa nel tracciare un universo non antropocentrico, popolato da animali sacri: cardilli, iguane, puma fino alla tartarughina del Levante in Corpo celeste. Anna Maria Ortese chiama “piccole persone” o nostri “Antenati” questi esseri dalle mutevoli sembianze che ci parlano da un passato lontano, spazzato via dall’arroganza dell’uomo e dalla sua nefasta Intelligenza.
È proprio un usignolo a visitare e a consolare l’asina regina nell’ultima fase della sua stanca e sofferente vecchiaia, sul limitare della morte, suggerendole ali da farfalla per entrare nel mondo dei beati: «Beati quelli che nascono farfalle / o hanno luce di luna nel vestito [...] Beati quelli che potano la rosa / e raccolgono il grano!» (Lorca). L’asina non capisce il senso di questo canto ma ne avverte il conforto, finché d’improvviso, proprio al momento del trapasso, si mette a cantare ed è un canto di soccorso, di gratitudine e di misericordia: «Lontano dalla guerra / dagli scoppi, dal sangue / c’è una pace che langue / c’è un respiro di terra. / Io canto a ragli lenti / su fuochi che son spenti».
L’humus da cui queste favole nascono e prendono forma è la cultura popolare indagata da Ernesto De Martino e presente in tutto un filone di scrittori meridionali sulla scia di quell’archetipo che fu Cristo si è fermato a Eboli. C’è un episodio significativo in questo libro ed è dato da un evento, una sorta di incantesimo per effetto del quale tutto si ferma e momentaneamente si blocca e in cui l’asina Regina perde la cognizione di sé e del proprio stato. È vero che l’incantesimo è un topos ricorrente nella favola, ma in questo contesto ci viene da pensare a quella condizione psicofisica di fuoruscita da sé che De Martino definiva come crisi della presenza, che colpiva i contadini sfiniti dalla fatica dalla fame e dagli stenti nei lunghi quotidiani viaggi di andata e ritorno dai campi.
A Regina una cosa simile, e per lei inspiegabile, succede proprio nel viaggio di ritorno dalla trincea al paese con il cuore in affanno e l’uomo-padrone agonizzante sulle sue stanche membra: «Io stessa camminavo, ma mi sembrava di non camminare più. Ilmio zoccolo, avvezzo alle pietre, affondava adesso in uno sbuffo di nuvole. Incapace di risollevarsi e completare il passo. Tutto era immoto».
La cultura popolare e il folclore sono qui dappertutto: nelle filastrocche e nei ritornelli, nei proverbi e nell’eco delle donne che, a mo’ di prefiche, scandisconole nove cantate dei misteri a commento delle gesta dell’asina Regina, la santa portatrice di pesi in cui la comunità si identifica: «Nel quarto mistero doloroso / di canto ferino / si contempla / Nostra Regina / che conosce il prezzo oltraggioso / dell’odio della guerra e la frontiera / è insulto malcelato di bandiera».
Sammartino ci ha abituati a un registro linguistico che mescola l’alto e il basso, il colto e il popolare, ma anche le diverse tonalità del racconto che vanno dal tragico al comico all’elegiaco. Il comico grottesco vive in episodi la cui finalità è quella di togliere orpelli al potere e diseroicizzare la guerra, come nei quadri di Grosz: «Prima mi urlarono contro i caporali incolleriti, poi vennero a strillarmi dietro i sergenti spazientiti. In seguito accorsero i tenentini allibiti e i capitani sbalorditi. Giunsero quindi i colonnelli infastiditi e infine si appropinquarono, tronfi, i generali impettiti. Tutti lì, davanti a me, con pupille di fuoco e vene rigonfie sui colli arrossati, a strepitare ingiurie».
A tenere insieme tanta varietà di stili, di toni e di generi è la vocazione teatrale di questo testo: si apre con un prologo che vede protagoniste le mosche assassine, emissarie di quell’inferno in terra che è la guerra né manca un coro a commentare i fatti e il canto e la musica fanno da sostegno alla recitazione. L’archetipo è il tableau parlant, l’opera “comica” con destinazione popolare che dal teatro si è spostata, con il passar nel tempo, nelle piazze ad opera di girovaghi e di compagnie spontanee che si esibivano in occasione delle fiere e delle feste, animando la vita dei borghi e dei paesi di quell’Appennino che, con le sue asperità e con le sue dolcezze, è paesaggio e personaggio, in quanto simbolo di una condizione umana.