PISTOIA - Poco prima di offrirsi alle luci di scena del Teatro Manzoni, dove interpreta Ginevra nel pirandelliano Non si sa come, allestito dalla compagnia Lombardi-Tiezzi, la raffinata attrice Elena Ghiaurov racconta di sé e della sua idea di teatro. Nei suoi ultimi spettacoli, in ordine di tempo, ha data vita alla proustiana Odette de Crecy, e alla pirandelliana Ginevra. Ritiene possano rappresentare due personaggi ancora attuali? Si tratta di due donne molto diverse fra loro.
In Ginevra, possiamo ritrovare l’ipocrisia di una società borghese che tiene molto alle apparenze per salvare il prestigio del proprio status sociale. Essendo però drammaturgicamente sovrastrutturata, lascia intravedere anche le proprie debolezze, che alla fine, essendo istintive, trovano sfogo senza che lei ne abbia coscienza, appunto “non si sa come”. Si tratta di un personaggio che trovo molto interessante, anche se è arduo da interpretare, considerando che non ha parti dialogiche particolarmente lunghe.
Già con Gabriele Lavia, all’inizio della mia carriera, ebbi l’occasione d’interpretare Ginevra, ma all’epoca non ne rimasi molto colpita; oggi però, con la maturità artistica di una carriera più lunga, posso dire di essere riuscita ad approfondirla nella sua sfera psicologica. Anche Odette de Crecy, a una prima occhiata, è una donna xx, con un suo desiderio d’emancipazione. Osservando più attentamente, si capisce però che siamo in presenza di un’aristocratica mantenuta, conscia del modo migliore per sfruttare le sue grazie.
Sia lei sia Ginevra, sono donne che hanno ben chiaro ciò che vogliono dalla vita, e trovo molto contemporaneo il discutere se sia più accettabile commettere un’azione poco ortodossa senza averne piena coscienza, oppure non commetterla, ma struggersi consapevolmente dal desiderio. Anche oggi, in tempi nei quali si assiste a una sorta di rinnovato puritanesimo, molte, troppe donne, affrontano dilemmi del genere. Dando vita ai suoi personaggi, quanto lascia “parlare” sé stessa, e quanto invece si attiene al testo originale? Premetto che ammiro molto il teatro di regia, perché trovo stimolante mettermi al servizio di un’idea, e collaborare con il regista alla nascita dello spettacolo.
Per questo, pongo molta attenzione a quello che mi racconta dal copione il personaggio stesso, cercando di attenermici il più possibile. Da questo punto di vista, trovo molto gratificante lavorare con Tiezzi, così come è stata una bella esperienza essere diretta da Ronconi. Però è ovvio che sul palcoscenico non è possibile, almeno per la mia idea di recitazione, astrarsi completamente da sé stessi, per cui, paradossalmente, in scena scopro una naturalezza che mi fa sentire me stessa più di quanto mi accada nella realtà quotidiana.
E posso aggiungere che anche i registi arrivano a conoscermi più approfonditamente attraverso i miei personaggi. Ma in estrema sintesi, posso dire che l’essere attore è l’altra faccia della medaglia; io e l’attrice siamo speculari, indivisibili. Come concilia, nel suo approccio attoriale, le sue radici est-europee con la realtà occidentale? Questo conciliare le mie origini est-europee con lo stile di vita e la mentalità occidentali è cosa di tutti i giorni, non soltanto in teatro.
Un elemento che però mi porto dietro delle mie radici bulgare, è il modo un po’ ingenuo e sognatore di guardare alla vita, che credo emerga nelle mie interpretazioni. Pur essendomi formata artisticamente in Italia, ho respirato sin dall’infanzia l’amore per l’arte, grazie a mio padre che è stato un apprezzato cantante lirico di fama internazionale. Per cui, ripeto, l’approccio artistico di stampo orientale lo porto comunque nel mio DNA. La sua impressione sul teatro contemporaneo.
Da attrice, cosa pensa della drammaturgia di questi ultimi anni? A un primo sguardo, quella che stiamo vivendo appare un’epoca molto confusionaria, che probabilmente non passerà alla storia per i contributi artistici che potrà dare, essendo molto più vocata alla tecnologia. Il teatro ne risente , e per questo è difficile imbattersi in testi originali e stimolanti. Guardando la situazione da un altro punto di vista, si scopre anche che in Italia c’è poca voglia di rischiare, da parte delle produzioni, nell’allestire testi nuovi, e si preferisce puntare sugli autori classici, sicuri di ottenere risposta dal pubblico.
Nel Paese manca il coraggio e la volontà di investire sui giovani drammaturghi, formandoli e dando l’opportunità di emergere a quelli più talentuosi. Cosa che invece è la prassi in realtà quali Francia, Germania, e buona parte dell’Est. di Niccolò Lucarelli