FERRARA- Si è soliti associare il Settecento alle frivolezze estetizzanti del rococò, cui si accosta un libertinaggio che, quando anche non pienamente compreso nei suoi significati più profondi, comunque diverte o quanto meno suscita curiosità. In realtà, il Settecento fu il secolo di una rinnovata riflessone sull'uomo e il suo essere. Ne dà un fulgido esempio, l'elegante Nipote di Rameau, che SIlvio Orlando ha diretto e interpretato con bravura al Teatro Comunale di Ferrara.
Il popolare attore, che ormai da anni si è costruito un percorso artistico di tutto rispetto, ha portato sulla scena il dialogo satirico in atto ujico che il filosofo francese Denis Diderot scrisse fra il 1762 e il 1773. Protagonisti, lo stesso Diderot, qui interpretato da Amerigo Fontani, e Jean-François Rameau, (Silvio Orlando, appunto), nipote del celebere compositore Jean-Philippe Rameau. La vicenda è rievocata dal ricordo del filosofo, e la dimensione della memoria è resda con poesia attraverso l'oscuramento totale del palco, a eccezione della figura di Diderot, che ha modo di fungere brevemente da narratore, suggerendo l'idea che il dialogo sia ormai lontano nel tempo.
la scena ha luogo in un caffè del Palais Royal, che all'epoca ospitava anche numerosi bordelli. L'atmosfera è ricostruita con accuratezza attraverso una scenografia non banale, attenta al gusto estetico del tardo Settecento. E appena prima che lo spettacolo abbia inizio, l'odore dell'incenso avvolge l'intera sala. Un efficace richiamo estetico al concetto di fondo del dialogo, ovvero si capta anche a livello olfattivo quell'incenso dell'adulazione che per Rameaa Nipote è un vero e proprio modus operandi. Attraverso questo dialogo, Diderot affronta gli scomodi temi dell'utilità della virtù, della necessità di adulare gli altri per chi, non essendo un genio, è costretto a sbarcare il lunario con emzzi di fortuna, l'importanza del genio nella creazione artistica, la dignità che ogni individuo razionale è tenuto a mantenere. Orlando impersona un Rameau Nipote che si pone quale anti-eroe della società, artista fallito e non scevro d'invidia per il talento altrui, che si rassegna a un'esistenza da buffone e adulatore, appunto per poter comunque frequentare quel bel mondo di ricchi e potenti che ha sempre guardato con malcelata ammirazione.
Versione caricaturale del dandy, lo snob conserva tuttavia una seppur minima digintà quando riesca a essere "passivo", impiegando tutto sé stesso nell'obbedire, imitare, e soprattutto non dispiacere a, coloro i quali stima di superiore levatura sociale. Categoria sociale a suo modo commovente, che già Tomasi di Lampedusa, acuto osservatore del bestiario umano, aveva messo a fuoco nelle splendide pagine del Gattopardo. Si tratta di una tipologia umana assai attuale, che trova esempi pressoché infiniti anche nell'Italietta contemporanea, dove una volgare apparenza, e una certa uniformità di pensiero, contraddistingue quasi tutta la classe politica, e larga parte di quella che è a torto definita "intellighenzia".
Qui sta la sorprendente attualità del dialogo di Diderot, che Silvio Orlando affronta con bravura attoriale, aggiungendo all'iniziale carattere francese di Rameau Nipote del testo originale, un inconfondibile tocco di italianità, attraverso quegli sguardi di sottecchi, quelle mezze frasi allusive, quella faccia un po' così, per citare un intellettuale vero, che richiamano inconfondibilmente il faccendiere della Milano da bere, i "furbetti" romani del quartierino, e infiniti personaggi del sottobosco burocratico-affaristico che negli ultimi trenta anni ha fatto dell'Italia un Paese senza dignità.
Tornando al Settecento, Orlando dà vita a un personaggio interessante, che paradossalmente si lascia andare a un istante di considerazioni critiche sul suo ruolo di adulatore parassita. Non è facile sopportare le umiliazioni che il ruolo comporta. Un personaggio negativo, ma non per sua colpa, nel senso che ognuno, nel grande teatro della vita. è costretto a recitare la parte che più si confà alle sue forze e alle sue capacità intellettuali. Qualcosa del genere lo aveva accennato Shakespeare nel suo raggelante Riccardo III, e Diderot, a suo modo, riprende il discorso con squisito cinismo, inserendolo in una più ampia riflessione di respiro europeo, che abbraccia gli ultimi tre secoli di storia.
L'adulatore, era in origine il cortigiano rinascimentale, colui che accompagnava il mecenate nelle sue peregrinazioni intellettuali, e che, con la Controriforma, si è trasformato nell'ottimo e necessario servitore del potere. In Italia il cambiamento ha messe radici più profonde, ma buona parte della cultura dell'Europa latina ne ha comunque subito l'influsso. La riflessione di Diderot diviene acuta e amara presa d'atto di come la mentalità europea si sia profondamente modificata, e di come l'asservimento, l'acquiescenza, la retorica, abbiano rischiato di spazzare via un secolo e mezzo di cultura rinascimentale.
L'Illuminismo, nel suo tentativo di liberare la coscienza dell'uomo, intuì questo cancro sociale, che ne ostacolava immancabilmente l'opera riformatrice. Adulare è una professione lucrosa ma anche costosa; Rameau/Orlando, lo ha imparato a proprie spese, quando si è lasciato andare a un commento troppo personale e per questo ha perso il suo posto alla mensa dell'arricchito di turno. Cerca consolazione nel dialogo con il filosofo, ma in realtà esso diviene pretesto per una sorta di amara confessione sul suo malessere interiore, combattuto fra un impossibile desiderio di ricchezza e dignità, e l'amara consapevolezza di non poter essere altro che sé stesso.
A riscattarlo, almeno in parte, quel suo rifugiarsi nel sogno, e quel suo vendersi non tanto a richiesta, ma assecondando la sua stessa disposizione del momento. A umanizzarlo, l'affetto per il figlio, (che sulla scena è rappresentato da un emblematica marionetta), cui, bontà sua, non sa bene che destino augurare, se avere coscienza, o lasciarsi trascinare all'ombra dei potenti. Un Rameau convincente e attualissimo, nel quale Orlando riversa con bravura un curioso mélange di rabbia, poesia, tenerezza, amarezza, istrionismo di bassa lega, voli pindarici, resi ancora più veri da un incedere a tratti esitante, guardingo, da povero burattino che teme di perdere i fili. Amerigo Fontani dà vita a un Diderot contegnoso, ma non distante, che nei limiti della sua condizione d'intellettuale, guarda a Rameau con malcelata simpatia.
Alla fine del dialogo, com'è prevedibile, ognuno se ne va per la propria strada, lascinado irrisolte le domande iniziali. E Maria Laura Rondanini, nelle vesti della cameriera del caffè, porta sulla scena la grazia settecentesca di certi dipinti di Chardin, nella raffinata modestia del portamento e nella sobrietà del trucco. Da un punto di vista scenico, oltre alla già citata ekeganza dell'allestimento, da notare i quattro pannelli con figure di animali, nello specifico una scimmia, una zebra, un ghepardo e un ippopotamo, rappresentazione ideale della varie categorie del bestiario umano, dove i predatori imperano sui più deboli e infingardi.
Quale di questi è l'adulatore? Un po' scimmia, perché imita l'uomo, un po' zebra perché in caso di fuga sa correre velocemente, un po' ippopotamo perché lento e pacifico nei ritmi di vita. Alla chiusura del sipario, calorosi e meritati applausi per unos pettacolo elegante, allestito e interpretato con profonda maturità artistica. Nella foto, di Marco Caselli Nirmal, una scena dello spettacolo di Niccolò Lucarelli