PRATO - Shakespeare sullo sfondo dell’imminente Seconda Guerra Mondiale, in una sordida e melliflua Parigi, riletto in chiave contemporanea per indagare l’ambiguità dell’essere umano. È questo l’approccio scelto da Giancarlo Sepe per l’applaudito allestimento, al Teatro Metastasio, suo Amletò (gravi incomprensioni all’Hotel du Nord). Trasportando la vicenda a Parigi - da qui l’accento finale sul nome del protagonista -, il regista costruisce un aggressivo teatro espressionista fra Lang e von Sternberg,che rende omaggio al cinema, al varietà e al teatro degli anni Venti, Trenta e Quaranta, accanto a numeri di danza che strizzano l’occhio alle scenografie dell’ensemble catalano la Fura dels Baus.
Non si tratta, infatti, di un classico spettacolo di prosa, bensì di un curioso, raffinato e intellettuale mélange di pantomima (con la mente a Tati e al primo Chaplin del cinema muto), balletto contemporaneo e teatro giullaresco. Alternando ritmi concitati a fasi più moderate, Sepe ricostruisce un approccio registico tipico del cinema espressionista tedesco, aiutato anche da un sapiente uso delle luci che suggeriscono atmosfere psicologiche di fumosi cabaret, strade solitarie ammantate di ombre, per una Parigi a metà fra la città immaginata da Lang in Metropolis, e la Berlino de L’Angelo azzurro di von Sternberg.
Sospesa fra tragedia e commedia, la pièce racconta la vicenda di una famiglia in viaggio (o in fuga), che prende alloggio all’Hotel du Nord, equivoco alberghetto che non sarebbe dispiaciuto a Henry Miller, e che ricorda da vicino l’altrettanto equivoco Hotel Belvedere di horvàthiana memoria, entrambi luoghi di rifugio temporaneo per un’umanità che affonda nel vizio e nel tradimento cercando di dimenticare la disperazione. È questo lo sfondo, bello e inquietante insieme, per un Amleto squisitamente novecentesco afflitto dal complesso di Edipo (un omaggio a Freud), e quindi profondamente innamorato della bellissima madre Gertrude, anziché della dolce Ofelia.
Attorno a questo amore impossibile - sia per Amleto, sia per Ofelia -, si incastrano tradimenti, vendette, gelosie, adescamenti, delazioni, maldicenze. Al centro, Amleto, impegnato a vendicare la morte del padre, ucciso per mano del fratello Claudio, anch’egli invaghito di Gertrude. Federica Stefanelli è una struggente Ofelia, avvolta in uno strano quanto sensuale costume spagnoleggiante a metà fra una ballerina di flamenco, o una vedette delle Folies Bergères. Forse l’unica creatura senza macchia della pièce, il suo suicidio sul Canal Saint Martin viene pianto con ipocrisia dai familiari.
La bella attrice dà il meglio di sé nelle danze forsennate in cui si esibisce, e nella sensualità con cui replica i giochi di gambe à la Marlene Dietrich. Teresa Federico è Gertrude, l’opposto femminile di Ofelia, una vamp anche lei sullo stile della Marlene Dietrich ne L’angelo azzurro, mentre Guido Targetti dà sapientemente vita a un Amleto debole e complessato, affascinato dal mistero dell’amore, ma troppo maldestro per indagarlo a fondo. Gli attori recitano con il volto dipinto di bianco, a metà fra le maschere greche e quelle deformazioni facciali che ricordano la pittura di Grosz, e quei circhi grotteschi dei quali Fellini ci ha lasciato uno splendido ritratto ne La strada.
Cos’è in fondo l’umanità, se non un bizzarro circo del quale la non risolta vicenda di Amleto ne è paradossale stigma? Lo spettacolo è caratterizzato da una cupa grandiosità della scena e della colonna sonora, con quest’ultima che passa agevolmente dalla musica classica alla vivace fisarmonica delle guinguettes, coinvolgente ballo popolare in voga in Lapin Agile e dintorni. Ennesimo richiamo a quella Parigi sordida e ambigua che si stendeva da Montmartre a Belleville, regno incontrastato degli Apaches, all’abbigliamento dei quali si ispirano i costumi maschili dello spettacolo, oltre a rispecchiarne l’atteggiamento provocatorio e scanzonato.
Struggente e suggestiva la scena di Amleto che ricorda il padre assassinato, immerso in una luce soffusa e circondato da tutti gli altri personaggi della vicenda. Sottofondo musicale, la splendida Temps des cerises, una canzone rivoluzionaria scritta ai tempi della Comune, e molto in voga nella Parigi degli anni Trenta. Una scena concettuale, dove ognuno dei personaggi è concentrato su sé stesso, nel ricordo di quel fugace “tempo delle ciliegie”, che simbolicamente rappresenta l’età dell’innocenza, una breve felicità, un sogno impossibile.
Metafora del malessere della Francia, e dell’Europa tutta, colte nella tragica stagione dei regimi totalitari, quando una mostruosa follia mossa dall’odia sembrava Interessante dettaglio: Temps des cerises accompagnò il funerale di Zola, per la morte del quale fu ipotizzato l’omicidio. Un personaggio scomodo per le sue posizioni nell’Affaire Dreyfuss, e per il suo ruolo di scrittore sensibile alle problematiche sociali. Dalla sua figura appena evocata (che sottintende specularmene quella di Drieu La Rochelle), prende le mosse una riflessione su mezzo secolo di storia europea e sulla controversa Francia alla vigilia dell’invasione nazista.
Il tradimento di cui cade vittima il padre di Amleto, è lo stesso di cui saranno vittime i francesi sotto il regime di Vichy, così come i tanti ebrei denunciati dai collaborazionisti (e Dreyfuss, mezzo secolo prima, era stato fra i primi a sperimentare la forza di un rinnovato antisemitismo). Un Paese, e un Continente, in piena crisi di valori. Come paradossalmente accade nei momenti più tragici della storia umana, c’è spazio anche per l’ebbrezza e il godimento sfrenato, in una rievocazione dei baccanali che si tenevano durante le epidemie di peste nel Medioevo.
Nella visione di Sepe, la città di Parigi è un voyeuristico girone infernale intriso di sensualità, erotismo, malvagità, e dove la morte diviene un’esperienza sospesa fra l’estetica e il grottesco, i sentimenti vengono derisi e l’appagamento dei sensi si ottiene solo con il vizio e la voluttà. Adottando come linguaggio un divertente grammelot francese, affatto difficile da seguire, Sepe infonde, a quella che sarebbe una tragedia, un azzeccato elemento comico, ma anche di riferimento storico, poiché ricorda l’argot degli Apaches.
Ma soprattutto, si tratta di un linguaggio-non linguaggio che rimanda all’invenzione destrutturata di Ionesco per La cantatrice calva, e svela le “gravi incomprensioni” suggerite dal titolo. Alla chiusura del sipario, applausi meritati per un affresco esteticamente impeccabile e concettualmente profondo sulla crisi dell’Europa di fine anni Trenta (ma anche di quella contemporanea), e sulle ambiguità degli esseri umani. Niccolò Lucarelli