FIRENZE - La vita è originale. È questa la raffinata conclusione cui giunge Zeno Cosini, borghese sui generis con il gusto della speculazione a tempo perso. E l’originalità della vita, declinata con ironia, è la chiave di lettura cui Maurizio Scaparro fa riferimento nell’applaudito allestimento al Teatro della Pergola de La coscienza di Zeno, dal romanzo di Svevo, nell’adattamento ormai classico di Tullio Kezich. Il lato più bizzarro e ironico della Mitteleuropa, in accordo con il meno stoico carattere italiano incarnato da Zeno, eroe di un’esistenza di atti mancati, che ripercorre a ritroso - in una seduta psicanalitica che diviene ricerca di sapore proustiano -, gli episodi salienti della sua vita ipocondriaca e tormentata, che lo ha condotto al matrimonio paradossalmente felice con Augusta, la donna che a prima vista non ha amata.
In mezzo, l’impossibile desiderio per la bella sorella Ada, il difficile rapporto con il padre scomparso, la sfortunata associazione commerciale con il cognato Guido Speier, il suicidio di questi, le frequenti amnesie, la relazione adulterina con l’aspirante cantante Carla Gerco. E, cornice che tutto avvolge in un’immaginaria quanto simbolica ambiguità, il fumo delle innumerevoli sigarette che Zeno si concede ogni giorno, senza riuscire a smettere, pur riproponendosi costantemente di farlo.
In questo limbo dell’indecisione risiede l’essenza del romanzo e dello spettacolo; la malattia tanto paventata da Zeno, altro non è che debolezza di carattere, che non necessariamente degenera nella noncuranza. Anzi, Zeno è uomo quanto mai sensibile, ammalatosi, per così dire, per un eccesso di delicatezza. La malattia è un riparo, la necessità di una comoda posizione d’osservazione di sé stessi. Fra i primi romanzieri a inserire la psicanalisi nella sua opera, Svevo è per noi figura di viva attualità, che indaga il complesso rapporto fra l’uomo e il tempo che scorre portandosi via una parte del suo essere, la difficoltà di non avere abbastanza tempo per vagliare tutte le possibilità che la vita offre (e il suo matrimonio ne è lampante esempio), la difficoltà, infine, di conoscere sé stessi.
E, giova ricordarlo, Svevo, assieme a Tomasi di Lampedusa è lo scrittore che meglio ha compreso il carattere di un popolo, l’italiano, non sufficientemente forte da sconfiggere le proprie paure. Sfondo meraviglioso e struggente della vicenda, l’elegante e industriosa Trieste dell’ultima stagione asburgica, dove il commercio è una ragione di vita, sia perché fonte di ricchezza, sia perché, come fa capire Giovanni Malfenti (il bravo Nino Bignamini), permette di capire il carattere degli uomini, sulla base della loro più o meno spiccata attitudine agli affari.
Il mondo del lavoro che si fa, quindi, un universo sociologico, specchio di un’Italia che sta scomparendo morsa dalla crisi e dall’inettitudine della politica. Accanto alla Borsa e agli uffici commerciali, i salotti cittadini, nello specifico quello di casa Malfenti, dove spiccano divani, poltrone, tappeti, il pianoforte, a dar l’idea di quella comodità fin de siècle che fungeva da vero e proprio status-simbol. L’eleganza della scenografia curata da Lorenzo Cutùli, si sovrappone all’ironia con cui Scaparro avvolge la pièce, e la sospende in un interessante contrasto estetico-concettuale fra un severo quadro di Scuola Viennese e un’incisione di Marchig.
Del resto, come osserva lo stesso Svevo, serietà e ironia sono allo stesso modo necessarie, per barcamenarsi nelle vicende della vita. E allora, la vita stessa diventa teatro; lo dimostra Zeno con le sue bugi per nascondere il tradimento, o per dichiarare ad Augusta il suo (non) amore, lo dimostra infine Guido Speier nell’imbastire un’avventura commerciale cui pone fine con una tragica scena madre. Una regia impeccabile contrassegnata dall’attenzione al dettaglio, alleggerita però da una consistente riduzione del testo originale, cui si affianca una vena comica che, rispetto al romanzo e in accordo con le necessità sceniche, avvicina al pubblico il personaggio di Zeno Cosini, forse altrimenti lontano, purtroppo, dalla sensibilità contemporanea.
Scaparro mantiene anche i controversi rapporti fra i due sessi, nelle coppie Zeno-Augusta, Guido-Ada, che in parte risentono delle discusse teorie di Otto Weininger, il quale filosofo diffidava della donna in quanto essere senza memoria. Una memoria che invece, per Zeno, è ragione di vita. Splendida e suggestiva la scena finale, con il monologo del protagonista che vagheggia quell’esplosione cosmica quale unica soluzione per curare questa bizzarra umanità. Giuseppe Pambieri dà vita a un intenso Zeno Cosini, sfaccendato soltanto in apparenza, in realtà assorto nella complessa osservazione di sé e degli altri.
Autoironico in giusta misura, Pambieri ci mostra un uomo che non ha paura delle domande, ma teme forse le risposte. Attorno a Zeno si muove un intero cast squisitamente borghese nei toni e nell’aplomb, che si muove con eleganza sullo sfondo di una Trieste salottiera e produttiva. Affascinanti e delicate, algide e appassionate, un po’ civette e un po’ dame, Antonia Renzella, Guenda Goria, Margherita Mannino e Silvia Altrui, nelle vesti delle sorelle Malfenti ci mostrano, in pratica e non in teoria, quanto l’esistenza sappia essere graziosa, dolcemente aggressiva, in definitiva contraddittoria.
Che per l’uomo, la donna sia ancora in parte un mistero non è certo una novità. Da parte sua, Francesco Wolf è un Guido Speier impetuoso e immaginifico, smanioso di azione, alla stregua di un D’Annunzio in sedicesimo. Forse unico elemento debole dell’allestimento, l’eccessiva marginalità di Giovanni Malfenti, pure un personaggio-chiave nella piega che assume l’esistenza di Zeno, che lo riconosce quasi come un secondo padre. Insistere di più sui loro rapporti, avrebbe probabilmente approfondita anche la statura drammatica del protagonista. Alla chiusura del sipario, dopo gli scroscianti e meritati applausi, Pambieri ha dedicato un ricordo ad Arnoldo Foà, da poco scomparso. Niccolò Lucarelli