C'è stato un tempo in cui un terzo del terreno agricolo della Toscana era coperto da coltivazioni di paglia da cappelli e dal porto di Livorno partivano ogni giorno navi cariche di chapeaux de paille d'Italie. L'industria della paglia, sorta dietro l'intuizione imprenditoriale di Domenico Sebastiano Michelacci, si estese da Signa, dove nacque tra il 1714 e il 1735, in tutto il circondario fiorentino (includendo anche Prato e il Pistoiese e coinvolgendo forse 80.000 persone), e dal lì nel nord Italia e in Europa.
Nell'Ottocento poi l'innovazione del prodotto e l'introduzione del telaio avrebbero contribuito a ridare slancio ciclicamente alla produzione locale, sino all'avvento delle fibre sintetiche nel secolo scorso. Oggi questa grande tradizione manifatturiera locale ai più non appare di primaria importanza come meriterebbe seppure, ridimensionate nel numero, le aziende del territorio siano ancora oggi vitali e competitive nei confronti dei grandi distretti della paglia europea. A ricordare l'epopea di questa secolare tradizione manifatturiera contribuisce lo studio “A suon di paglia tra la piana e la collina.
Fiesole, Signa, chapeaux en paille, leghorns d'oro, d'argento e...” curato da Roberto Lunardi e Maria Emirena Tozzi per le edizioni Polistampa. Il volume prende occasione dalla mostra inaugurata a Fiesole l'8 giugno 2013, con il determinante contributo dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze. Si tenga presente che l'ascesa della Paglia ha qualcosa di miracoloso nel XVIII secolo, allorché la Toscana viveva un rovinoso decadimento delle manifatture, fomentato dal sistema delle corporazioni, dal farragginoso complesso di leggi protezionistiche, dalle carenze dell'istruzione scientifica.
In tali condizioni il privilegio proteggeva la mediocrità, avviliva l'ingegno e soffocava l'emulazione. In questo scenario sociale il bolognese Domenico Michellacci riscopre l'abilità tradizionale dell'intreccio e, selezionando appositamente certi tipi di paglia riesce a trasformaere in industria una delle più antiche attività dell'uomo, ottenendo cappelli di qualità standardizzata, che vende con successo al porto di Livorno, raggiungibile da Signa lungo l'Arno navigabile. E' l'unione di tradizione e innovazione a far sì che, in pochi anni, enormi quantità di cappelli (che da allora in molti paesi si chiameranno Leghorn) vengano esportati in tutto il mondo, trasformando un'attività locale in un'impresa di vanto internazionale. La paglia, originariamente un materiale di scarto della trebbiatura del frumento, diventa così un asse portante dell'economia agricola locale, giungendo piano piano a trasformare l'organizzazione mezzadrile e cambiando anche la società.
Ad esempio, perché le donne scoprono con la paglia il lavoro a domicilio, che con l'intreccio, o la tessitura, nelle ore libere dai lavori dei campi, consentiva loro di evitare l'emigrazione di un membro della famiglia e la disgregazione del nucleo parentale. Donne che, all'inizio del Novecento, avrebbero dato vita alle prime cooperative femminili in Italia. Il distretto del cappello lavora ancora oggi a mano, o a macchina, materie prime che trasforma in capi da donna e da uomo di alta qualità, esportati ovunque ci sia una clientela capace di apprezzare la specialità della produzione toscana.
Il nostro dovere è quello di tramandare e valorizzare questo tesoro prezioso, frutto dell'abilità, dell'inventiva, della creatività di chi ci ha preceduti. Perché -spiega il volume curato da Roberto Lunardi e Maria Emirena Tozzi- ci sono ancora interessanti opportunità imprenditoriali per giovani intelligenti che sappiano superare i vincoli castranti dei pregiudizi culturali. di N. Nov.