Scrivere di Miracolo a Sant’Anna può essere molto complesso. Perché oltre al fatto filmico in sé, c’è tutta la parte storica e politica e sociale che il tema stesso del film si porta dietro e che è inevitabile in partenza. Quando il cinema incontra il reale, il vissuto, la cronaca, da sempre la questione che ne scaturisce è la dicotomia fra l’affabulazione creativa e la verosimiglianza storica.
Io scrivo di cinema, e di cinema parlerò, non di storia. Di quella, e delle polemiche partigiane che il film ha generato, parlerò velocemente solo per esporre il mio personalissimo punto di vista.
Punto primo: non mi ritengo personalmente offeso dalla figura del partigiano traditore.
Ce ne saranno stati, come (testimoniano i superstiti della strage) sicuramente ci sono stati tedeschi “buoni”, persone comuni che non avranno accettato la barbarie in corso e si saranno in cuor loro ribellate. E’ un pretesto narrativo che la storia stessa, con la sentenza della Cassazione mesi or sono, ha pubblicamente smentito: l’eccidio di Stazzema è stato pura strategia del terrore dei nazisti contro la popolazione locale, non finalizzata ad un’azione di guerriglia contro i partigiani.
Punto secondo: il film non offende la “memoria” della resistenza, ma ad un popolo senza memoria storica, (il nostro, ma anche quello americano, forse tutti i popoli del mondo contemporaneo, basta seguire la cronaca per accorgersene) forse corre il rischio, questo sì, di confondere le idee e di far credere che le cose siano andate come descritte nella pellicola.
Ma si insegni la storia, allora, per evitare questi rischi; si chieda alla Cultura e all’Istruzione quello che il Cinema, da solo, non può e forse non deve fare. Se queste due entità ancora vivono fra noi, si intende…
Punto terzo: sono innegabili quelle ferite storiche nel popolo italiano a cui si appella il signor Lee per difendere il suo film dalle critiche e dalle accuse di “revisionismo”. Ma lui poteva aspettarsele, le polemiche, facendo un film come quello che ha fatto, che porta a galla quelle questioni tanto vive.
E forse chiedersi se era giusto usare quel fatto storico come pretesto narrativo per parlare in fin dei conti di altro; e prima ancora di lui James McBride, autore del libro da cui la sceneggiatura è tratta.
Ma si allungherebbe la lista delle questioni extrafilmiche all’infinito, e lascio volentieri ad altri la parola. Parliamo del film, che vede protagonisti quattro soldati di un plotone sperimentale di sola fanteria di colore (“esperimento” per vedere l’utilizzabilità in battaglia dei neri nel corpo militare statunitense) e della loro amicizia con la popolazione locale versiliese, fra i quali si sentono più integrati e rispettati che dai compatrioti a stelle e strisce.
In particolare i rapporti umani fra due soldati, l’idealista Stamps e il furbo Bishop, e la bella Renata interpretata da Valentina Cervi, e soprattutto quelli fra il “gigante di cioccolato” Train e il bambino Angelo, salvato dal soldato dal crollo di un soffitto durante un bombardamento.
I quattro si sacrificheranno poi per difendere gli italiani dalle rappresaglie tedesche, ansiose di catturare un loro disertore fuggito durante l’eccidio di Sant’Anna, ora in mano ai quattro soldati di colore, e di catturare un capo partigiano rifugiatosi momentaneamente nel paese.
Questo il fulcro di base, nel quale Lee innesta vari elementi finendo per perderne poi il controllo.
Si parte con una sorta di struttura gialla con l’omicidio da parte di Hector Negron, impiegato alle poste, di un italoamericano che scopriremo essere poi Rodolfo, il partigiano traditore che tanto ha acceso le polemiche dell’Anpi, incontrato casualmente quarant’anni dopo sul luogo di lavoro.
Hector Negron è infatti l’unico superstite del drappello di soldati protagonisti del film: da qui, tramite un giornalista giovane in cerca di scoop che gli lancino la carriera, parte una struttura a flashback che ci riporta indietro ai fatti bellici. Il tutto condito da inutili e fuorvianti camei di John Turturro, Kerry Washington e John Leguizamo, il cui personaggio non serve assolutamente a niente.
Dopo averci mostrato l’abbandono delle truppe di colore oltre le rive del Serchio da parte di un comandante che li considera carne da macello, in una sequenza che richiama echi da Salvate il Soldato Ryan, e dopo aver condito l’attesa dell’inevitabile scontro fra americani e nazisti con la propaganda radiofonica di una sexy imbonitrice tedesca ( prime perplessità sul film: sarà anche vero storicamente, ma il linguaggio e i contenuti usati dalla donna appaiono troppo contemporanei e gratuitamente osceni), sono già trascorsi una ventina di minuti e ci si comincia ad annoiare.
Uno dei veri grossi “reati” del film di Lee è che, a parte alcuni spezzoni, è un film noioso che a tratti sfiora il ridicolo involontario.
E’ fuorviante il personaggio dello scemo Train e di tutta la superstizione che si porta dietro; fa sorridere il fatto che americani e italiani parlino una sorta di esperanto ante litteram capendosi perfettamente (sarebbe da vedere nella versione originale se i nostri attori parlano in inglese o meno per capire di più le vere intenzioni di regia); il ragazzino rimanda troppo apertamente alla Vita è bella di Benigni, tanto che ci si chiede sul momento se Spike Lee stia per parare in quella direzione.
Il tanto dichiarato Miracolo è la salvezza del piccolo Angelo, che l’amico Arturo, morto nell’eccidio, in versione ectoplasmica, riaccompagna verso la vita dopo la strage finale.
E questa è una digressione fantastica di cui l’intero film proprio non avvertiva il bisogno. E poi c’è la retorica, i tanti dialoghi pretestuosi che sanno di digressione manzoniana dell’autore, pur se per bocca dei personaggi: Bishop e Stamps che fanno apertamente una riflessione troppo “svelata” sul ruolo dei neri nell’esercito e nella società americana; l’ufficiale tedesco che legge Pascoli e che ferma l’esecuzione di Hector regalandogli una Luger per fuggire e difendersi.
Come se Lee volesse mostrare fin troppo di non stare da nessuna parte, di condannare ed assolvere solo la guerra e non le persone che l’hanno fatta; non è nelle motivazioni la critica, ma nel modo.
Eichholz è un personaggio posticcio che sa pericolosamente di buonismo, molto di più funziona l’umano Brandt, il soldato che risparmia e tenta di far fuggire i due bambini dalla strage.
Bastava questo per mostrare che non tutti i nazisti erano dei bastardi. Ma anche qui, il meccanismo è sfuggito di mano a Lee che si perde in troppi personaggi secondari e subplot non necessari che annacquano ulteriormente la precaria struttura drammatica del film.
Questa tendenza supponente ad una certa retorica colpisce anche gli italiani: un partigiano muore nel finale gridando “libertà”, novello e misconosciuto William Wallace di noialtri. Ma per favore, viene da dire, signor Lee, ci dai le caramelline? Il personaggio di Valentina Cervi è indefinibile, fatta salva la funzione drammatica di andare con Bishop verso la fine del film (ma il suo decolletè dopo un’ora e mezza di noia si fa apprezzare); altri personaggi minori rasentano la macchietta, come un’occasione persa che poteva essere interessante è Ludovico (Omero Antonutti) padre di famiglia legato ancora all’ideologia fascista.
Lo Cascio accetta (son dollari, è Spike Lee, e poi non è colpa sua!) il piccolo ruolo di Angelo adulto che paga la cauzione al processo per omicidio di Hector prima di rincontrarlo in un’imbarazzante finale; si salva solo Pierfrancesco Favino, “Farfalla”, il capo partigiano, che , per carità, è sorretto anche da uno dei pochi personaggi riusciti della sceneggiatura, ma dimostra ancora una volta, e dovremmo cominciare tutti a non avere timore di dirlo, di essere un grande professionista e un attore giustamente di fama internazionale.
La sequenza dell’eccidio raccontata a due voci da lui e dalla partigiana che lo ha avvertito del pericolo è l’unico momento veramente emozionante, dove Spike Lee recupera la sua maestria registica per descrivere un fatto storico che nell’economia del film è quasi un’appendice e che è inserito come titolo del film per motivi che si tingono di tinte fosche e commerciali.
Insomma, un pasticcio storico-filmico di cui temo si parlerà ancora a lungo ma che, almeno cinematograficamente parlando, non merita proprio tutta questa coda pubblicitaria.
E’ un brutto film, mal riuscito, nonostante le intenzioni iniziali. Capita a tutti, anche a Spike Lee.
di Marco Cei