“E’ una storia banale, nel senso hollywoodiano del termine. Una Grande Storia d’Amore. Hitler e il suo Ebreo. Un caso orribile”.
Con queste parole, scritte in occasione del debutto di Mein Kampf nel 1987, George Tabori lanciava una nuova provocazione al pubblico viennese.
E anche quella volta fu un successo; l’opera è diventata il suo testo più noto e rappresentato in tutto il mondo.
Questa edizione de I Fratellini segna il ritorno alla regia di Egisto Marcucci, dopo un lungo periodo di forzato allontanamento dalla scena.
L’autore costruisce uno scenario paradossale per presentarci un improbabile ma verosimile incontro del giovane Hitler, aspirante pittore, con un mendicante ebreo, nella grande Vienna avviata alla guerra e alla decadenza.
Il cuore drammaturgico della pièce è rappresentato dalla curiosa ed improbabile amicizia che l’autore fa nascere fra l’ebreo e il futuro capo dei nazisti. L’ebreo, con la forza umoristica di chi è stato reso orfano dalla violenza di un pogrom e dalla ferocia di sbirri antisemiti, stravolge devozionalmente il Talmud e la Torah per accogliere benevolmente, con pietas ebraica, le farneticazioni nazionalistiche e razziali di un Hitler isterico, sessuofobo, misogino.
Mentre il futuro Fuhrer ci viene presentato come un ex bambino infelice, nato in una famiglia spietata, con una parziale origine ebraica vergognosa.