Gabriele Lavia ne L'Avaro di Molière alla Pergola

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
17 dicembre 2003 14:00
Gabriele Lavia ne <I>L'Avaro</I> di Molière alla Pergola

Dopo alcuni anni di scelte drammaturgiche contemporanee o moderne, Gabriele Lavia si confronta con un grande classico del teatro. E’ infatti il protagonista e il regista di L'Avaro di Molière, un testo universale quanto atemporale, che potrebbe essere rappresentato in qualsiasi epoca. In scena l'ossessione di un uomo, Arpagone, che accumula denaro – con qualsiasi tipo di attività, lecita o illecita - e non si rende conto di avere una malattia. La stessa, cronica malattia che ormai riguarda il mondo: appropriarsi senza ritegno di tutto ciò che è venale, materiale, trascurando i sentimenti, l'amicizia, l'amore, la natura, il rispetto e la dignità dell'uomo.

Egli è famoso ovunque, oltre che per la sua insopportabile avarizia, per il regime austero cui sottopone tutta la famiglia, ma anche i suoi servi. Accanto al motivo dell'avarizia, vi è una complicata vicenda amorosa, con al centro lo stesso Arpagone, vedovo da tempo, che si mette in testa di sposare la giovane e povera Mariana e per farlo si affida a Frosina, donna scaltra e abile nell'ordire inganni e nel combinare matrimoni.
Un testo classico, ma fuori dal tempo. L’Avaro di Molière, un perfetto esempio di arte drammatica, di vita trasformata, trasfigurata, enfatizzata e prestata all’arte.

Il testo si muove sulla scia del più classico Plauto con tanto di doppio intreccio amoroso e servitore, Freccia, rubato alla commedia dell’arte, destinato per tradizione e ruolo a sciogliere ogni nodo. Strappa risate la piecè, e come non potrebbe, portando in scena e ridicolizzando i vizi, le piccolezze, le nefandezze del genere umano. Tutti i personaggi di Moliere sono malati ed è brutta cosa la malattia del vivere. Macchiette umane, misantropi, malati immaginari e Arpagone, il nostro avaro.

Un uomo di sessant’anni, un vecchio bambino, troppo anziano per l’incoscienza con cui continua a vivere ma abbastanza in là negli anni per avere un unico pensiero: la morte. Il tutto, se possibile scandito da una totale incapacità di gestire i rapporti, di creare legami, di dare… Arpagone vive in una casa con due figli, Éloise e Cléante, che lo odiano. Eloise, innamorata del servitore Valerio, è promessa all’anziano Anselme, un uomo talmente invaghito di lei da volerla sposare anche senza dote.

Cleante ama Marianne, bella, giovane, povera e purtroppo scelta dal padre come seconda sposa. Fin qui tutto normale, tutto da copione o meglio da canovaccio, finché non arriva lo stravolgimento. Ecco entrare in scena il servo di Cleante, Freccia, che ruba del denaro ad Arpagone affinché il suo padrone possa restituirlo al padre in cambio di Marianne. Ma l’avaro, neanche a dirlo, accusa del furto Valerio, che vede nella collera del padrone la prova della scoperta del suo amore per la figlia. Ma a rimettere tutti i tasselli al proprio posto ci pensa il classico riconoscimento o svelamento che dir si voglia.

I poveri ma belli Valerio e Marianne sono in realtà i figli perduti in un naufragio del ricco Anselme. Dissipati i dubbi, sollevato il velo di Maya, la catarsi si compie, l’amore trionfa, il doppio nodo amoroso si snoda. Ai giusti la giusta ricompensa all’avaro il suo denaro. Molto bravi, oltre allo stesso Lavia, gli altri interpreti Andy Luotto, Federica Di Martino, Lorenzo Lavia, Marco Cavicchioli, Manuela Maletta e Giancarlo Condè.

Cenni di regia
Jean-Baptiste Poquelin avrebbe voluto essere un attore tragico.

Ma, si dice, che, Molière, avesse una grande difficoltà nella declamazione dei versi: voce sorda, articolazione affrettata. Questi “difetti”, però, lo rendevano unico e inimitabile nella Commedia. Ma dietro il riso e l’eredità dei Comici dell’Arte, c’è sempre, in Molière l’aspirazione o soltanto il “sogno” della Tragedia. Una tragedia non eroica, non ipertrofica, ma una tragedia sporca, nera, che nasce da una storia “schifosa”. Gli eroi di queste storie schifose sono cornuti, misantropi, arrampicatori sociali, avari, piccolo borghesi, malati...

malati a tutti i costi. Malati fino alla morte. Malattia di vivere che divora e uccide questa strana umanità che si presenta con una bizzarra diversità fisica e psicologica. Mettere in scena Molière fa paura. E “L’Avaro” è un testo che fa paura. Paura per la sua ambiguità e la sua inafferrabilità. Arpagone è proprio un caso clinico. E’ un mostro senza saperlo. Incosciente come un bambino. Vecchio- bambino o Bambino- vecchio, con la paura lancinante della vecchiaia e della morte.

Sessant’ anni non sono poi così tanti, ma sono abbastanza perchè la morte diventi il pensiero dominante della propria vita. Pensiero dominante e Voluttà della Morte. Soprattutto se (come recita la didascalia) Arpagone “tossisce”. E noi sappiamo che Molière “tossiva” e che è morto di... “Tosse”... Allora questa sporca, ridicola, tragedia di un ridicolo uomo- vecchio- bambino, con la voluttà della morte, questa commedia dolorosa di un padre odiato dai figli che vivono in una casa dominata dal lutto della madre morta...

sì... può mettere paura… ma nel contempo essere una stimolante sfida per il regista che la deve mettere in scena. (RO)

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