FIRENZE - Ogni opera d’arte è l’incarnazione di un’idea, così come ogni essere umano è l’incarnazione del Verbo divino, essendo stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Questo sembra essere il concetto che sta alla base della mostra Bellezza divina. Tra Van Gogh, Chagall e Fontana, che inaugura la prima stagione del nuovo corso di Palazzo Strozzi. Un tema, quello della religione nell’arte, di per sé non particolarmente originale, ma comunque affrontato con un certo piglio nella mostra fiorentina.
Molteplici sono gli aspetti di richiamo mediatico della mostra, non tutti necessariamente artistici. Da un lato, s’inserisce nel clima del V Convegno Ecclesiale Nazionale che si terrà a Firenze dal 9 al 13 novembre prossimi, e in quello, ben più solenne per la cittadinanza, della visita di Sua Santità Francesco I, il 10 novembre. L’esposizione è stata appunto pensata per essere la cornice artistica di due importanti eventi religiosi che interesseranno la città, e da questo punto di vista il successo di pubblico appare quasi scontato, complice appunto, comprensibilmente, l’aura papale.
È infatti presente in mostra la Crocifissione bianca (1938) di Marc Chagall, che sembra sia una delle opere d’arte preferite dal Pontefice.
Da un punto di vista più strettamente artistico, il titolo porta in sé tre nomi di insigni geni dell’arte, le cui opere non è usuale poter ammirare a Firenze, ma nonostante questo, le opere in grado di affascinare nel profondo, e di comunicare un messaggio incisivo, non sono più di dieci, sulle novanta che raccontano quello che è stato il rapporto dell’arte del Novecento (comprendendo per esteso anche il secondo Ottocento), con il tema del sacro, un tema meno frequentato rispetto ai secoli precedenti, a causa delle nuove istanze e problematiche che hanno interessato il sentire della società, prima fra tutte l’Esistenzialismo in filosofia, ma anche il Positivismo scientifico, e il Decadentismo, correnti di pensiero che hanno posto al centro delle esigenze la sola figura dell’uomo, immaginandolo irrimediabilmente distaccato dalla dimensione divina.
Serpeggia quell’angoscia distruttiva che porterà alla dichiarazione della Prima Guerra Mondiale, dopo la quale nulla sarà più come prima, mentre nelle periferie delle città, che conoscono una rapida espansione causata dall’inurbamento dovuto all’industrializzazione, conoscono tumulti sociali e lotta di classe, favorendo agnosticismo e ateismo. La millenaria civiltà rurale europea è ormai al capolinea, e il mondo dell’arte osserva e commenta le profonde modifiche che va subendo, ne è specchio abbastanza fedele e discetta, come mai era accaduto prima, sull’uomo e le sue angosce.
Una mostra dal profondo valore simbolico, sia per la figura del Pontefice che, in un certo senso, vi aleggia, sia per i messaggi di pace e speranza che lascia a chi la visita, attraverso opere che hanno attualizzato il messaggio di Cristo, rinnovandone in un certo qual modo il sacrificio, spesso inserendolo in contesti quotidiani fatti di povertà e fatica, contesti nei quali la divinità è presente con la sua immensa pietà, condivide la sofferenza dell’individuo, e lo affianca nel sopportarla.
La mostra fiorentina, curata da Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Ludovica Sebregondi e Carlo Sisi, vuole invece riportare l’attenzione sul dialogo fra arte e religione, che si è molto affievolito, senza però giungere a una drastica interruzione. Un dialogo che nei secoli è stato complesso e drammatico, che ha visto la censura (e non solo) della Chiesa nei confronti degli artisti, ma ha anche vissuto momenti di splendore, basti citare il mecenatismo di Papi quali Leone X, Giulio II, Clemente VII. I tempi sono ovviamente cambiati, ma il dialogo fra arte e Chiesa è comunque proseguito nei secoli.
Sette le sezioni della mostra, la prima delle quali illustra la tradizione delle grandi pale d’altare ottocentesche, proseguendo con le immagini mariane; è qui che ci s’imbatte nelle splendide Madonne di Edvard Munch, ben più evocative delle retoriche immagini di De Carolis o Morelli. Munch, esistenzialista per vocazione ed espressionista per ovvia, conseguente convinzione, ritrae due “spaventose” madri di Cristo, stagliate su uno sfondo scuro, lo sguardo assente, indecifrabile, una madre in lutto, un lutto che appare definitivo, in accordo all’idea della morte di Dio, teorizzata da Nietzsche sul finire dell’Ottocento. A differenza degli eterei Previati e Morelli, Munch è espressione di un rapporto con il sacro particolarmente tormentato, da artista vicino al sentire contemporaneo.
La terza sezione, dedicata alla vita di Cristo, affronta i temi dell’Annunciazione, della Natività, i miracoli, le parabole, la Passione, la Crocifissione, la Resurrezione. È infatti la figura di Cristo il cardine della mostra, figura che non ha mai perso d’attualità, anche nei decenni in cui trionfavano l’Esistenzialismo e il Decadentismo. La società, e di conseguenza l’artista, hanno comunque sempre sentito la necessità della sua presenza, anche soltanto per celebrarne la presunta morte; in negativo, in chiaroscuro, ma comunque presente.
Al di là di tele accademiche, ormai fuori tempo sul Novecento imperante, quali quelle di Previati, Chini, Corcos, Denis, la mostra tocca considerevoli apici con opere come L’Entrata di Cristo in Gerusalemme, nelle due versioni di Stanley Spencer (1920) e Giovanni Costetti, rappresentano con efficacia l’importanza del messaggio divino nei contesti disagiati. Due tele che riflettono quella dottrina sociale della Chiesa che già la Rerum Novarum di Leone XIII aveva toccato; in questi due oli, Cristo entra in città, ovvero si reca dalle masse degli ultimi, e lo vediamo incedere umilmente nella periferia londinese, e in quella fiorentina (della quale si riconoscono le ciminiere della Nuova Pignone), un incedere che sembra invocare giustizia per gli umili, anche sul luogo di lavoro.
La Bibbia, allegoria della storia dell’umanità, è la tavolozza degli artisti, e la mostra ha il merito di farlo comprendere al pubblico, esponendo opere che, seppur a tema religioso, sono chiari rimandi alle vicende sociali e politiche del Novecento. Non casualmente, pochi sono i quadri novecenteschi sulla Resurrezione, molti invece quelli sulla Passione e Crocifissione, i più crudi dei quali risalgono alla Prima Guerra Mondiale, o agli anni della Seconda, allegorizzando le sofferenze di Cristo con quelle dell’Europa.
Sottilmente disturbante Il bacio di Giuda (1918), di Giuseppe Montanari, dove sotto uno splendido e commovente cielo stellato, un impassibile Cristo in tunica rossa riceve il bacio dell’Apostolo traditore. È il 1918, appunto, un anno cruciale per l’Italia, sconvolta dalle rivolte operaie, galvanizzata dall’imminente vittoria militare, ma lacerata dalle lotte di classe. Si respira clima di tradimento, sia politico per quella che sarà la Vittoria Mutilata, sia sociale, con i reduci che non vedranno adeguatamente riconosciuto il loro sacrificio, così come le classi operaie.
Ecco che la figura di Cristo è di nuovo vicina all’umanità, non è scomparsa ma è simbolo di nuove lotte e sofferenze. Di queste si è occupato, nel 1914, Max Ernst, con il Crocifisso, del quale (più ancora dell’omonima opera di Picasso, anch’essa in mostra), impressionano la posa scomposta, come di chi ha subito orrende torture, e i rivoli di sangue sul volto e sul costato, chiara allegoria di un’Europa sull’orlo del baratro. Su corde parimenti drammatiche, ma con sfumature di commovente dolcezza, si muove Marc Chagall nella sua Crocifissione bianca (1938), sintesi perfetta dell’Europa stretta nella morsa nazista, con il Cristo in croce circondato da immagini di guerra, di distruzione, di ebrei in fuga, di madri disperate.
L’arte si fa specchio della condizione umana, la figura di Cristo si fa sorprendentemente terrena, e idealmente si riavvicina alla drammaticità del Crocifisso di Brunelleschi, conservato nella fiorentina Cappella Gondi. Per questo, nei suoi momenti più alti, la mostra lascia un sottile senso d’angoscia, suggerito dal mistero dell’incarnazione di Cristo nell’uomo, e dalla conseguente divina comprensione della sofferenza dell’uomo.
Proseguono la mostra una sezione sulla decorazione murale, una dedicata alla videoistallazione Spazio, luce, sacralità, (2015) che riproduce gli interni di cattedrali e monasteri del mondo, e una sezione dedicata all’iconografia ecclesiastica, sezioni non particolarmente interessanti dal punto di vista artistico, né da quello concettuale.
Diversa considerazione per l’ultima, dedicata al tema della preghiera. Si ritrovano qui due opere che, idealmente, aprono e chiudono il periodo cronologico toccato dalla mostra. La prima, L’Angelus (1857-59) di Jean François Millet, dove la preghiera serale dei contadini è il simbolo dell’abbandono alla fede come fonte di consolazione e speranza, caratterizzata da uno struggente tramonto che sembra evocare la luce del paradiso. L’altra, La preghiera del cieco (1920-23) di Lorenzo Viani, manifestazione di estrema sofferenza di un uomo povero e malato, che chiede al cielo quel pane che la terra gli nega.
Un’opera dal carattere autobiografico, a simboleggiare la figura dell’artista come individuo ai margini, in un certo senso vicino al Cristo, come Lui portatore di un messaggio di pace, di fratellanza, di comprensione. E uscendo dalla mostra, assale il dubbio di scoprire un giorno i paradiso tutti quegli artisti “maledetti”, additati come eretici e peccatori, e di non trovarci invece i “santi padri” dell’Inquisizione, o la massa dei “cristiani benpensanti”, che quegli artisti hanno sempre respinto, nella convinzione di star seguendo il Verbo divino.
Niccolò Lucarelli