ROMA - Il tempo nel suo scorrere senza requie, corrode la pietra, il marmo, i metalli più resistenti, e, per ragioni che ancora ci sfuggono, in una qualche drammaticamente affascinante maniera, riesce a rompere la trama dell’armonia fra la brillantezza del pensiero, il contesto sociale, e il senso dello Stato. In tal modo si spiegano le decadenze socio-politiche che hanno afflitte tante civiltà del passato, trasformandole profondamente, o decretandone la fine. L’Impero Romano ha attraversate entrambe le fasi, e conobbe l’inizio della decadenza attorno al 180 d.C., con il regno di Commodo, succeduto al padre Marco Aurelio. Con il figlio s’inaugurò la profonda crisi che portò alla dissoluzione dell’Impero, corroso nelle sue più profonde certezze etiche e religiose, invaso dalla superstizione, minato dall’insicurezza militare.
Eppure, nel paradossale svolgersi della storia della civiltà, la decadenza è anche una fase che ha in sé le idee utili a dar forma al futuro, portatrice di nuove istanze, nuovi usi e costumi, nella vita quotidiana come nelle arti e nel campo del pensiero.
Inserita all’interno del grande progetto museale I giorni di Roma - volto a ricostruire la nascita e l’evoluzione dell’identità della Roma antica attraverso lo stile artistico -, la mostra L’Età dell’Angoscia. Da Commodo a Diocleziano (180-305 d.C.), a cura di Eugenio La Rocca, Annalisa Lo Monaco Claudio Parisi Presicce, prende in esame, come suggerisce il titolo, le inquietudini che accompagnarono quella difficile fase politica, e analizza la nuova sensibilità artistica che ne fu specchio. Oltre duecento le opere esposte, fra sculture, sarcofagi, pitture tombali, affreschi, oggetti d’uso quotidiano, provenienti, oltre che dalla collezione dei Musei Capitolini, anche da altre prestigiose istituzioni internazionali, fra cui il Metropolitan di New York, il Museo dell’Acropoli di Atene, il Landesmuseum di Treviri.
Un qualsiasi soggetto politico perde la sua forza dal momento in cui vacilla la certezza del potere, che, nel caso dell’Impero Romano, divenne “ostaggio” delle pressioni militari; con l’assassinio di Commodo, finì la trasmissione ereditaria del trono imperiale, del quale divennero arbitri i centurioni. Il principio dinastico sarebbe tornato per un breve periodo dal 193 al 217 d.C., grazie a Settimio Severo, che riuscì ad assicurarsi la successione dei figli Geta e Caracalla. Ma il potere dell’esercito era ormai tale da non poter consentire un ritorno all’antico, e anche Caracalla, come Commodo oltre vent'anni prima, finì assassinato da Marziale, un ufficiale della milizia imperiale.
Questa instabilità politica portò con sé l’indebolimento delle strutture dell’Impero, che a sua volta si ripercosse sulla sicurezza interna. Guerre civili, crisi finanziarie ed economiche, carestie, epidemie (come quelle scoppiate nel corso del principato di Gallieno) e la perenne pressione dei barbari ai confini, erano le urgenti problematiche a causa delle quali il futuro appariva particolarmente incerto, e davanti alle quali le strutture dello Stato sembravano impotenti.
Sette le sezioni della mostra, la prima delle quali I protagonisti, racchiude ritratti, statue e busti di Imperatori e importanti cittadini; ma in mezzo alla crisi, a poco serviva l’iconografia ufficiale del potere, a restituire dignità a una carica ormai svuotata delle sue più importanti prerogative; e allora, come rassegnata agli eventi, l’arte si fa specchio del nuovo corso, e se sovente si fa ricorso a modelli augustei, quelli dell’età dell’oro, il piglio non è certo il medesimo; ed ecco allora imperatori e notabili esprimere sguardi talora scettici, talora angosciati, che sorprendono per la loro modernità in grado di anticipare e unire le riflessioni di Kierkegaard (la condizione esistenziale generata dalla vertigine, dall’infinito che si stende davanti e che l’uomo non riesce più a controllare) e Sartre, il quale a sua volta, riecheggia lo scetticismo di Epicuro quando afferma la solitudine dell’uomo, assolutamente solo di fronte alla morte e di fronte al compito di progettare un’esistenza sensata.
Era smarrito il cittadino romano dell’epoca, come altrettanto smarrito è il cittadino europeo contemporaneo - e italiano in particolare -, costretto quotidianamente a ritrovare sulla stampa e in televisione la stessa mancanza di dignità politica che caratterizzò gli ultimi effemminati imperatori, più attenti al loro serraglio personale di tigri, leoni, prostitute e ruffiani, di quanto non lo fossero al bilancio dello Stato.
Ma l’Europa è in crisi quasi ininterrottamente dal primo Dopoguerra, e già nel 1927, il poliedrico Alberto Savino realizza un ritratto postumo dell’amico Guillaume Apollinaire, scomparso nove anni prima; Apollinaire. Tête antique, questo il titolo. Non ancora chiuse le ferite della Prima Guerra Mondiale, con la crisi del ’29 alle porte e una Germania ancora nel caos, gli anni Venti furono anni d’incertezza; la società dell’Ottocento era definitivamente tramontata, e all’orizzonte spuntava l’Europa dei totalitarismi, dell’industrializzazione di massa che avrebbe alterato il millenario rapporto fra l’uomo e la campagna.
Apollinaire - l’intellettuale cosmopolita nato a Roma nel 1880 da un ufficiale svizzero già al servizio dei Borboni, e da un’avventuriera russo-polacca -, è immortalato nel mezzo busto tipico dell’iconografia dell’Antica Roma; colpisce lo sguardo perso nel vuoto, forse vagheggiante l’ormai irrecuperabile mos maiorum, alla stregua dei tanti Imperatori che, più o meno consci della simbolicità del loro ruolo, si sentivano tanti pallidi riflessi dei Cesari di un secolo prima.
È interessante osservare come l’arte si faccia interprete dell’agonia di una civiltà millenaria, e la sua sorprendente modernità - indice dell’immutabilità di fondo dell’essere umano nei suoi aspetti psicologici -, la si riscontra nel Ritratto colossale di Probo, il cui sguardo esprime un’impassibile nausea sartriana, in un certo senso commovente nello sforzo di occultare un profondo dolore morale.
Nei momenti di crisi, in mancanza d’idee politiche per riportare la pace sociale, è facile ricorrere all’utilizzo della forza pubblica per imporre ai cittadini quel rispetto dello Stato che in condizioni normali una buona politica farebbe nascere spontaneamente. Nella sezione dedicata all’esercito, si comprende lo spazio che questo assume nella vita pubblica dell’epoca, una presenza abituale nelle città, dove i pattugliamenti erano all’ordine del giorno. Una situazione che ci è familiare, sia con l’operazione Strade sicure lanciata nel 2009, sia con il rafforzamento della sorveglianza in tanti siti sensibili all’indomani delle folli minacce dell’Isis.
Nelle figure del legionari di quasi due millenni orsono, è facile ravvisare i militari di oggi, una presenza drammatica in città che si stanno sempre più chiudendo in sé stesse, proprio come la Roma antica, raccontata nella terza sezione, attraverso i modelli in scala delle caserme e delle mura costruite in età Severiana, quando si cominciò a intuire la permeabilità dei confini settentrionali.
A Roma e negli altri centri dell’Impero abitavano cittadini nei quali giornalmente cresceva l’insicurezza e la percezione di uno Stato in sfacelo, sofferenze alle quali cercavano rimedio nei culti esoterici orientali e nell’astrologia, prima che la fine delle persecuzioni contro i cristiani porti all’affermazione definitiva della religione cattolica. Nello splendore delle statue di Iside, Iuppiter Dolichenus, Mitra, si ravvisa l’urgenza di ritrovare quella pace dell’anima che il nuovo stato di cose ha incrinato; un malessere diffuso che porta sfiducia, superstizione, e debolezza sociale.
Problematiche che affliggono anche la società del Duemila; se in epoca antica ci si affidava agli astrologi, ai maghi, a improbabili culti religiosi d’importazione orientale, ai nostri giorni, nell’epoca della società di massa, anche le angosce personali divengono un qualcosa da condividere con gli altri, più o meno a proposito; e allora, milioni di giovani e meno giovani frastornati, s’incontrano sui social-network, o corrono dagli astrologi (a loro volta reperibili sul web). Differente nella forma, il disagio è identico nella sostanza.
Spaventati dalla solitudine, gli individui cercano ascolto, conforto morale, non realizzando che si stanno soltanto rendendo ridicoli. E la perdita del senso del ridicolo è sintomatica della perdita di dignità. Una dignità che, in prima istanza, manca allo Stato.
Il ceto abbiente, però, cercava di organizzare la fine imminente di quel mondo con un apparato degno delle gloriose gesta del passato, ed ecco allora, quasi usciti da un pagina del Satiricon petroniano, raffinati oggetti d’uso quotidiano che non sarebbero dispiaciuti a Oscar Wilde, e che rievocano l’opulenza dei banchetti conviviali che Petronio descrisse in modo paradossale, ma che sono comunque situazioni sintomatiche di un'ebbrezza della fine imminente che si vuole apprezzare fino all’ultimo.
Le sezioni finali della mostra, oltre agli arredi delle dimore private, sono dedicate ai costumi funerari, con sarcofagi, pitture mitologiche, sculture funerarie. La raffinatezza, nelle sue forme più esagerate e barocche, è una garbata maniera per stordire i sensi e lenire la sofferenza dell’anima, quando non c’è più niente da sperare o in cui credere, stretti dall’insicurezza militare da una parte, e dal crollo di valori secolari e l’incertezza politica dall’altra.
Desta perciò un’angosciosa meraviglia scoprire che la civiltà europea - e italiana in particolare -, sta attraversando le medesime problematiche di due millenni orsono.
La politica è in piena decadenza, ostaggio non più dei centurioni, ma degli occulti poteri economici delle multinazionali; il sistema dei valori, in particolare quelli familiari, è in pieno disfacimento, e le giovani generazioni brancolano in cerca di cosa possa sostituirli; la sicurezza degli Stati e quella individuale è messa a dura prova da un’altra “minaccia orientale”; se all’epoca Roma era minacciata da quei popoli non ancora civilizzati che dalle steppe mongole si erano riversati fino in Pannonia (l’odierna Ungheria), premendo oltre il limes le varie tribù germaniche che affluirono rovinosamente in un Impero ormai incapace di respingerli, anche in questo tormentato inizio di III millennio, da Est continuano a giungere segnali minacciosi, con la piaga del terrorismo islamico che proclama follemente di distruggere la civiltà occidentale.
Se anche certi scenari apocalittici possono essere scongiurati, è innegabile che la crescente immigrazione sta alterando i rapporti numerici fra le varie etnie in Europa; Londra è il caso limite, ovvero la capitale inglese abitata per la maggior parte da non-inglesi. Una tendenza, questa, che se non invertita avrà gli stessi effetti di quando gli antichi barbari calarono nell’Impero, portando di fatto all’estinzione del popolo romano.
Bisogna però essere realisti: non si vive di nostalgie, e se la Storia ci ha insegnato qualcosa, è che niente è eterno o immodificabile. Anche le civiltà, alla stregua di un qualsiasi essere vivente, sono destinate a morire per consunzione, (quando non intervengano fattori naturali come terremoti o cataclismi a spazzarle via). La parte difficile, è morire con dignità, salvare il proprio patrimonio culturale e spirituale.
A Roma, bisogna riconoscerlo, riuscì morire dignitosamente, e desta ammirazione lo sforzo di quei pochi Imperatori che, come tanti Gattopardi travolti dalla "rivoluzione", si consumarono nella disperata ricerca di qualcosa che desse loro l'illusione di poter resistere; lo trovarono nell'arte, e in tal modo conservarono la cultura classica, lasciando le basi sulle quali si sviluppò il Rinascimento. All’Europa contemporanea il compito di far sì che quel sacrificio non sia stato vano.