PISTOIA- Quando la fotografia si sublima nella filosofia, a seguito di un lungo e attento lavoro di osservazione e ricerca. Questa l’essenza dell’arte di Gianfranco Chiavacci, ospitata a Palazzo Fabroni nella mostra Fotografia totale, la prima antologica, curata da Valerio Dehò, e dedicata al fotografo pistoiese a due anni dalla scomparsa, e che diviene occasione per la città di Pistoia, per conoscere meglio un suo figlio d’arte al quale, sino a quando è stato in vita, ha colpevolmente concessa poca attenzione.
155 opere tra fotografie in bianco e nero e a colori, opere d’arte concettuali e scultura fotografiche, riunite insieme per la prima volta, in una mostra che spiega il nascere della fotografia intesa come strumento analitico, di riflessione sulla luce, il colore, il contrasto fra bianco e nero. Sviluppa e amplifica, con stile del tutto personale, una visione completamente nuova della fotografia. Pertanto, di lui si può dire che non fosse semplicemente un fotografo, bensì un artista che fa uso della macchina fotografica. Pensatore con il senso dell’ironia, apparentemente perso in un isolamento che però fu spazio e mezzo di riflessione artistica, e anche interiore.
Una “chiusura” che fu paradossalmente apertura all’arte, ai movimenti e alle istanze del secondo Novecento, sempre con coerenza e onestà intellettuale, scevre di atteggiamenti modaioli. Fra gli anni Sessanta e Settanta, il pensiero scientifico era poco avvertito in Italia, e scegliendo di radicarvi la sua produzione, Chiavacci si pose all’avanguardia del discorso artistico nazionale, portandovi una sorta di sguardo globale che oggi sembra quasi profetico. Formatosi sulla lezione di maestri dell’Avanguardia europea, quali Wassili Kandinskij, Paul Klee, Piet Mondrian, e Max Ernst, sviluppò il suo interesse per la tecnologia, dalla sua professione di programmatore di elaboratori elettronici, trasferendolo in arte nell’intima convinzione che l’invenzione autentica avesse luogo soltanto uscendo dai binari dell'arte del passato, ovvero riferendosi alle conoscenze positive che trasformano continuamente, ed oggi in maniera particolarmente accelerata, il mondo e la società.
La sua ricerca fotografica diviene ricerca teorica, che riecheggia il dibattito semiotico dei filosofi del Novecento. Il numero, inteso come punto di partenza della binarietà, diviene immagine e parola. Binarietà intesa come logica a due stati, da una parte l’idea di novità tecnologica che cominciava a emergere sul finire degli anni Sessanta, e dall’altra la capacità analitica di ragionamento sull’arte e gli strumenti, in questo caso pellicole e macchine fotografiche. La curiosità di Chiavacci lo portò a indagare le molteplici possibilità del loro utilizzo, in equilibrio fra la dimensione matematica e la dimensione luminosa.
12, 20, 36, i numeri “magici” dei fotogrammi che Chiavacci utilizza per produrre e riprodurre immagini, delle quali sperimenta e osserva i risultati delle differenti messe a fuoco e sviluppo, rivelando l’importanza del processo chimico che interessa la pellicola. Non una fotografia documentaria, bensì un ragionamento sulle implicazioni che la tecnologia ha sulla vita reale degli individui, capace com’è di modificarne l’immaginario. Niccolò Lucarelli