TORINO - Che la musica sia uno spazio di dialogo fra cultura diverse, non è concetto nuovo, tuttavia sembra essere lasciato in disparte dal dilagare di tanti cantanti e gruppi meramente commerciali, che riducono una forma d'arte a semplice merce di scambio. Fortunatamente, il jazz resta ancora lontano da simili compromessi; lo ha ribadito anche Mauro Ottolini ieri mattina in conferenza stampa, c'è urgente necessità di musica che faccia pensare, che getti semi per guardarsi intorno e consocere altre culture.
A questo punta l'ensemble di Al Di Meola, il chitarrista italo-americano che si è esibito al Torino Jazz Festival accompagnato da una band prettamente classica, con il pianofrote di Mario Parmisano e un quintetto d'archi, oltre alla batteria. Forte delle sperienze fatte con il compianto Paco De Lucia e John McLaughlin, il mago delle sei corde regala un concerto in bilico, musicalmente fra Spagna, Nord Africa e Stati Uniti, lasciando spazio anche a tre omaggi ai Beatles, frequentati nello splendido All your life, uscito lo scorso anno.
Sin dalle prime note, sul palco aleggia una calda atmosfera spagnoleggiante, incentrata sulle basi del flamenco, ora più meditativo, ora più vivace, che ha comunque il tocco del Triana più vero, cui si affiancano il pianoforte di Mario Parmisano e il quintetto di archi composto da Tina Guo e Andràs Sturcz al violoncello, Gergely Balàsz e Gàbor Csonka al violino, e Gyula Benkő alla viola.
La chitarra di Al Di Meola passa con disinvoltura dal flamenco appena pizzicato sulle corde, a un blues dal tocco ben più corposo, quasi una pennellata di Toulouse Lautrec. Esteticamente accattivante il dialogo che s'instaura con il pianoforte di Parmisano, un suono lieve che suggerisce i lussureggianti giardini dell'Alhambra, quasi una rapsodia di Gershwin. Una commistione di Spagna e Stati Uniti d'America, che lascia spazio a sonorità decisamente arabeggianti, con Peter Kaszas che lascia le bacchette per suonare i tamburi direttamente con i palmi delle mani, per poi lasciare spazio al finale blueseggiante, con Di Meola che pizzica, sin quasi a spezzarle, le corde della sua chitarra. Ma l'eclettismo di Di Meola alza il tiro proponendo esaltanti incursioni nel blues chicagoano, cui si affiancano le atmosfere vivaldiane cui gli archi talvoalta inducono.
L'omaggio ai Beatles si sviluppa su tre fra i brani più belli e complessi del gruppo, nell'ordine Eleanor Rigby, Strawberry Fields Forever e The Walrus; la prima trascina il pubblico sin dalla prima nota, e la bravura di Di Meola e soci sta nel rendere travolgente il brano, anche grazie ai dinamici archi del quintetto, pur mantenendone le pensose e meditative atmosfere, che ci parlano della solitudine dell'uomo. Alla batteria, Kaszas sostituisce il tamburello cadenzato. Strawberry Fields Forever è invece un viaggio nella psichedelia britannica, che l'arrangiamento voluto da Di Meola rende ancora più splendida e struggente. I vuoti sospensivi, creati da Lennon nella stesura originaria, sono riempiti da Kaszas che infonde energia a percussioni e grancassa, che spianano la via a un finale elettrizzanti capace di abbattere anche le porte della percezione.
The Walrus, fra i più visionari dei brani di Lennon, scritto un po' per gioco e un po' per convinzione, si caratterizza per la possente interpretazione corale della band, che accompagna la luminosa chitarra di Di Meola.
Il concerto si chiude con l'omaggio a Paco De Lucia, compagno di avventure sul palco e in studio, cui Di Meola dedica un sentito, puro flamenco orchestrale, che prosegue su ritmi più sommessi, rafforzati dal quadrato pianoforte di Parmisano, con la terza parte sostenuta dalla batteria e svolazzanti violini dal sapore manouche.
Due ore di concerto, che accompagna il pubblico in un'esaltante viaggio alle origini dela musica tzigana, passando per le suggestioni arabe, e passaggi di jazz "classico" e blues urbano. Un appuntamento che ha conferma il Torino Jazz Festival quale rassegna di riferimento nel panorama internazionale.
Foto di Fabrizio Cirulli.