Al centro di Piazza Signoria, nel contesto delle celebrazioni per il settecentenario della morte di Dante Alighieri, è stato esposto “Abete”, opera del maestro torinese Giuseppe Penone, che si ispira all’albero descritto da Cacciaguida degli Elisei nel XVIII Canto del Paradiso.
L’albero, protetto da un lato dalla maestosità della Loggia dei Lanzi, e alle spalle dallo splendore di Palazzo Vecchio, si staglia lungo e affusolato, quasi allampanato, in un percorso che va dal basamento su cui poggia, al cielo a cui tende.
Il tronco è bitorzoluto e colpisce più per la sua lunghezza di oltre 22 metri, che per la sua circonferenza, alquanto ridotta. I rami sono spogli, irregolari, tentacolari, quasi protesi verso il visitatore.
Approfondimenti
Siccome l’arte chiama arte non possono che affiorare alla mente i versi di Ungaretti “Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie” nonché il più famoso tra i romanzi di Steinbeck “L’inverno del nostro scontento”.
All’interno degli scheletrici rami, si fanno strada dei tubi, come quelli delle impalcature, posti in modo da costruire una sorta di scala a chiocciola, che si erge fino al vertice, come a disegnare un percorso verso la meta dell’umanità, che Dante indicò sublimemente in “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.
L’Albero è opera che si presta facilmente all’ironia, tanto più a quella abrasiva e dissacrante dei fiorentini, e difatti i commenti beffardi non sono certo mancati.
Epperò se ci si avvicina a questa forma d’arte con umiltà e senza pregiudizio, preferibilmente nel silenzio mattutino o nella penombra del crepuscolo, lentamente se ne viene compenetrati, come da tutte quelle opere che più che da vedere sono da sentire.