Il diciassettenne Bernie (Alden Ehrenreich) arriva a Buenos Aires per ritrovare suo fratello maggiore Angelo (Vincent Gallo) che dieci anni prima ha abbandonato New York e la famiglia deciso a non aver più niente a che fare con suo padre Carlo Tetrocini (Klaus Maria Brandauer) geniale e titanico direttore d'orchestra di fama mondiale. L'incontro tra i due è conflittuale e darà il via a una spirale misteriosa e dolorosa di flashback e forward sulla dinastia della loro famiglia, artisti visionari, scrittori e musicisti. Grande outsider del cinema americano, Francis Ford Coppola presenta la sua ultima fatica alla Quinzaine des Réalisateurs perchè, come era già successo trent'anni fa per Apocalypse Now, il Festival di Cannes gli ha negato il concorso: «anche allora mi volevano fuori concorso perché il film non era finito.
Dissi: signori, se volete mostrarlo con gli altri, deve gareggiare con loro. Gareggiò e vinse […] Questo film è troppo personale per usarlo come scusa per una festa in abito da sera. O lo mettevano in concorso, o niente. Poi la Quinzaine mi ha offerto l'apertura e ho pensato che questo era il posto giusto per un simile film». Maldestramente rititolato dalla distribuzione cinematografica italiana con “Segreti di famiglia” (uguale a milioni di altri film...) Tetro è un'ardita opera sperimentale, un melodramma noir che risuona del suo cinema più amato, dai classici a Welles e Fellini, da Elia Kazan a Powell e Pressburger, ai quali si è ispirato innanzitutto per i toni ossessivi e tormentati. Scritto dopo una serie di film realizzati su commissione per rimettere in pari la Zoetrope («Dopo “One From the Hearth” avevo tantissimi debiti con le banche e sono stato effettivamente costretto a girare un film all'anno, su commissione.
È stato con “Dracula” che, finalmente, ho saldato tutto») in questo progetto Coppola realizza la sua visione d'indipendenza inseguita da sempre: dopo Non torno a casa stasera e La conversazione infatti, gira nuovamente un film completamente suo, di cui può scrivere soggetto e sceneggiatura (oltre alla produzione e alla distribuzione in Usa). E come a volersi quasi “riscattare” da questo periodo, Coppola infila in questo personalissimo film tutte le sue ossessioni ed escursioni emotive: l'amore e il delitto, il tradimento e la dedizione, la distanza tra la vita e l'arte e soprattutto quei ‘viscerali legami di sangue’ che erano già al centro della trilogia de Il padrino e che inseguono i diretti riferimenti alla sua vita privata «anche in questo film ho raccontato le dinamiche familiari che ho visto in azione fra mio padre e mio zio, e poi fra mio padre e me.
E se mi chiedete quanto di autobiografico c'è nel film, vi rispondo come Orson Welles in “F come falso”: nulla di quel che vedete è accaduto, ma tutto è vero». E in effetti c'è da diventar matti a inseguire le ipotetiche similitudini tra il complicatissimo puzzle della famiglia Tetrocini e quella di Coppola: padre e zio musicisti (come quelli di Coppola), figura paterna dominante, zio meno talentuoso costantemente annichilito dal fratello, due figli cresciuti all'ombra di un padre grande artista (saranno i figli di Coppola? O lui e suo fratello Augustus, noto studioso e professore di letteratura comparata?), la necessità di Angelo di liberarsi di un nome di famiglia troppo importante (come ha fatto il nipote di Coppola, ribattezzandosi Nicolas Cage) e infine ancora la perdita di una persona amata, nell’incubo di un violentissimo incidente automobilistico in cui muore la madre di Tetro, c'è l'eco della tragica fine del figlio maggiore di Coppola.
Dice ancora il regista: «ognuno dei personaggi incarna una parte di me. Ho scritto una storia di fantasia che però pesca nei ricordi della mia famiglia, ma anche nei film e nelle commedie che ammiravo, come “La dolce ala della giovinezza” e “La gatta sul tetto che scotta” di Tennesee Williams»; oltre ai ricordi dei ragazzi del suo “Rusty il selvaggio”, con la loro adolescenza tormentata: «con Tetro ho proseguito e concluso il discorso iniziato con Rusty il selvaggio, che può esserne definito il “cugino”, perché c’è un legame stilistico, oltre che narrativo: è la storia di due fratelli, e il minore idealizza il maggiore.
Anche per me è stato così con mio fratello». La prima inquadratura del film è così simbolicamente importante che diventa la sineddoche dell’intero film: una falena che sbatte ripetutamente contro una lampadina, ineluttabilmente attratta dalla luce fino a morirne. Allo stesso modo i legami familiari finiscono col rivelarsi più forti di qualsiasi tentativo di alienarli, e sono così “vampirizzanti” che finiscono con l’annientare qualsiasi tentativo di normalizzazione e di costruzione.
Come l'intercettatore de La conversazione diveniva preda del suo stesso spiare, così qui Benjamin, decodificando i manoscritti di Tetro, ne porta alla luce il rimosso, rischiando egli stesso di finire preda di una realtà troppo pesante per poter essere sostenuta. La rivalità che schiaccia e umilia le vite di questi personaggi è così sintetizzata dallo stesso Coppola: «la rivalità tra gli uomini di una famiglia di artisti che cercano, ognuno a modo suo, di esprimere talenti e personalità è il motore di questo film […] Il fatto che la rivalità esista all'interno di una famiglia, tra persone che si vogliono bene, rende la vicenda più complessa e drammatica». Si percepisce il desiderio del regista di giocare col mezzo cinematografico: sia nella descrizione dei rapporti tra i personaggi che sembrano sempre sul punto di deflagrare per poi ricomporsi nervosamente, che nel lavoro compiuto attraversando presente, passato e futuro capovolgendo la consueta percezione del colore come mezzo della contemporaneità e del bianco e nero come tramite del passato.
Il melodramma procede per scatole cinesi ed è destrutturato con precise scelte di colore: l’uso magistrale di un bianco e nero fascinoso ed elettrico per il presente ed il colore saturo e violento per il tempo dei ricordi che, come squarci improvvisi, mettono in luce i segni di un passato tragico che riprende forma malgrado la volontà di rimuoverlo. Spiega Coppola: «ho usato, in maniera insolita, il bianco e nero per le parti relative al presente e il colore per il passato. Ma c’è un motivo: il film è ricco di contenuti emotivi e volevo sottolinearli con realismo poetico; il bianco e nero vi si addice, come in vecchi film come “Fronte del porto” e “Rocco e i suoi fratelli”.
[…] Ho fatto questa scelta perché ormai il bianco e nero si vede raramente al cinema, mentre io trovo che ci sia qualcosa di unico nelle immagini in bianco e nero (certamente la luce). Ricordo i film di Akira Kurosawa nel bianco e nero del Cinemascope, e poi i film di Elia Kazan e Robert Bresson. Nella mia mente ho sempre associato il bianco e nero a un certo tipo di dramma poetico». Si percepisce la sperimentazione anche a livello narrativo nella mancata adesione al punto di vista dominante (che dovrebbe essere quello di Bernie) per una proliferazione di livelli e deviazioni dati dalla moltiplicazione degli “specchi” e dei “doppi”, figure perturbanti per antonomasia: si pensi ad esempio alla duplice interpretazione di Brandauer (padre e zio) o al proliferare di dialoghi che scardinano l’unicità dei personaggi come “sono scappato come hai fatto tu”, “la febbre del viaggio, presa da te”, “non fare Me, fai Te.
A fare Me ci penso io” ecc. Goffo e sublime, imperfetto e potente allo stesso tempo, Tetro attrae per la sua eccessiva densità, ma sfiora il ridicolo e il grottesco per l’eccessiva urgenza espressiva delle sue emozioni. L’architettura simbolica del film ad esempio si adagia talvolta su impudenti elementarità, facili parallelismi come la rappresentazione del complesso di Edipo o il Faust per la crudeltà paterna, oppure esplode nel finale in una patetica orgia emotiva eccessivamente carica di vezzi e stonata rispetto al resto del film.
Probabilmente proprio per questi motivi è difficile definirlo come un film riuscito, ma sicuramente è il più intimo e personale. Laura Iannotta