di Nicola Novelli
E' di qualche settimana fa la pubblicazione, da parte dell'editore Mauro Pagliai di Firenze, nella collana 'Radici del presente', del volume Le vene aperte del delitto Moro (pp. 360, euro 23). Sotto la cura del professor Salvatore Sechi, il libro pubblica gli scritti dell'onorevole Franco Mazzola, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti nei Governi Craxi e Cossiga, del magistrato Luigi Carli che fece condannare la colonna genovese delle Brigate rosse, del docente universitario USA Richard Drake, degli studiosi Marco Clementi, Vladimiro Satta, Fernando Orlandi, Gabriele Paradisi e Roberto Bartali.
Il volume ha il merito di raccogliere alcuni saggi prodotti per il convegno sul delitto di Aldo Moro organizzato a Cento nel marzo del 2008, dove sostenitori di punti di vista diversi si confrontarono contrapponendo dietrologie a sentenze di tribunale, giudizi politici a verdetti storici. Di quelle polemiche il volume edito da Mauro Pagliai è specchio sincero, nel solco della maggiore tradizione storiografica.
Perché il delitto di Aldo Moro accende così gli animi a più di trenta anni di distanza?
Perché si tratta di un evento cardine della storia repubblicana, un momento di svolta che ha interrotto e iniziato processi epocali, l'attimo raro in cui si percepisce quanto il destino di una nazione possa trovarsi nelle mani di pochi, o addirittura di un singolo individuo.
Perché Aldo Moro nel 1978 si trovò a disporre di una capacità di influenza che raramente in Italia si era vista tale. Per spiegarne le ragioni bisogna partire da lontano. Almeno dalla fine degli anni '50 è difficile intendere la storia della Democrazia Cristiana se non la si interpreta come il racconto della sfida tra le sue Correnti interne. La loro contrapposizione, talora aspra, spiega e determina tanti rivolgimenti e tante decisioni prese sia a livello partitico che di governo. Con il passare degli anni la dinamica delle correnti interne costringe i principali leader democristiani a trasformare anche i tradizionali alleati di governo in personali alleati di corrente, per cercare ulteriore sostegno esterno alle risorse interne censite in congresso.
E' questo gioco di sponda interpartitica che consente anche a correnti democristiane altrimenti minoritarie, come gli Andreottiani, o i Forzanovisti, di incarnare un ruolo di rilievo a livello nazionale. Si tenga presente comunque che i riferimenti delle correnti DC sono i piccoli partiti laici, come pure le correnti interne del Partito Socialista Italiano. L'operazione politica che Aldo Moro mette in atto alla metà degli anni '70 è invece di dimensioni inusitate. Attraverso un percorso parlamentare e personale, che qui non sarebbe possibile specificare, Aldo Moro riesce a presentarsi come l'interlocutore principe di quel Partito Comunista Italiano che ha appena iniziato il suo avvicinamento alla Socialdemocrazia.
Come riferimento fiduciario del segretario Enrico Berlinguer, il Presidente della DC Aldo Moro, riesce così a sommare le piccole forze della sua personale corrente interna, che al congresso dell'EUR ha raccolto l'8% dei consensi, al granitico presidio parlamentare del centralismo democratico comunista (che nel 1976 ha raggiunto quasi il 30% dei seggi alla Camera). Moro può così contare su un numero di consensi parlamentari ingentissimo. Tanto che non casualmente la stampa italiana del 1978 lo indica unanimemente come il candidato più accreditato alle elezioni per la Presidenza della Repubblica, in programma a fine anno.
Perché allora Aldo Moro viene ucciso?
Definito il ruolo e il peso di Moro nella primavera del 1978 pare evidente che l'obiettivo del rapimento delle Brigate Rosse non sia affatto casuale.
I terroristi prendono di mira l'uomo che, con il suo carisma, detta l'agenda politica del paese. Moro sa gestire con la forza delle proprie parole il magma incandescente dei gruppi parlamentari democristiani e intanto procrastinare a data da stabilire (presumibilmente dopo le elezioni presidenziali) l'accesso diretto del PCI a Palazzo Chigi. Proprio delicatezza e unicità di questo momento sottendono fragilità e debolezza del ruolo di Aldo Moro. Il leader democristiano non è soltanto oggetto delle attenzioni dei brigatisti, è vigilato speciale dei principali governi e servizi di intelligence occidentali e comunisti, senza eccezioni.
I 55 giorni della sua agonia sono teatro di mille colpi di scena e manovre note (uno per tutti il falso comunicato BR del Lago della Duchessa), oppure oggetto di future ricostruzioni. E' certo semplicistico additare una sola pista, o un solo colpevole. Moro cade vittima delle armi dei terroristi, ma gli errori, le indecisioni, le omissioni volontarie, se non gli aiuti insperati di molti, concorrono al suo assassinio. Come sottolinea Richard Drake nel suo scritto, fino al 16 marzo le BR sono ancora guardate con simpatia da migliaia di militanti della sinistra estrema e certo dai servizi segreti dell'Est europeo.
E Salvatore Sechi conclude che Moro rapito, depositario di decenni di segreti della politica nazionale e internazionale, è ostaggio scomodo per il nostro governo, ma anche per la CIA. Servirebbe un docente di Fisica per spiegarci come il concorso di forze contrapposte e convergenti possa provocare lo spostamento di un corpo in un'unica direzione, in funzione della somma di queste forze, tra le quali è complesso, ma ineluttabile, determinare quale sarà la prevalente. Da qui l'appello a studiosi e istituzioni accademiche perché “alla mediocre gestione politica della prigionia di Moro -invita Salvatore Sechi- non segua l'indifferenza per il modo con cui è stato lasciato morire”.
Bisogna chiedere, ad esempio, al governo italiano la pubblicazione di verbali e corrispondenza dei Comitati di Crisi del Ministero dell'Interno.
Il delitto Moro come problema storiografico
Come su ogni grande vicenda della storia moderna e contemporanea, anche sul delitto Moro la storiografia è in difficoltà a svestire gli occhiali dell'ideologia personale dei ricercatori. Dalla Rivoluzione Francese in poi gli studiosi si confrontano e si battono su eventi importanti come il Risorgimento, o l'Unità d'Italia, l'avvento del Fascismo, o la Resistenza, non scevri da condizionamenti politici dovuti alle proprie convinzioni personali.
Non è difficile indovinare dall'intonazione degli studi sul delitto Moro le idee politiche che animano ciascuno degli autori. E' la scivolosa conseguenza della natura ideologica della nostra politica da più di 200 anni a questa parte, particolarmente sensibile in un paese come il nostro dove tradizionalmente l'idea della realtà è prevalente sulla realtà stessa.
Un'altra difficoltà pesa sulla ricostruzione storica del delitto Moro. Chiunque ascriva la propria cultura personale all'orizzonte ideale delle democrazie di stampo illuminista, inciampa inconsciamente nella ricorrente pratica del delitto politico nella storia dell'Occidente liberal-democratico.
Come ammettere che nonostante i principi fondamentali dettati dalla rivoluzione francese e prima da quella americana, ancora oggi non sia stato bandito il periodico ricorso alla violenza contro quegli individui, che in un certo momento, si sono trovati a svolgere un ruolo chiave nei processi democratici? L'interminabile rosario che, solo negli ultimi decenni, lega il destino tragico di John Kennedy e di Olof Palme, di Aldo Moro e di Itzhak Rabin, pesa come un macigno sulle nostre certezze di democratici maturi e civili, sulle fondamenta della nostra vita personale e collettiva.
C'è qualcosa nell'uomo che le carte costituzionali di due secoli non sono riuscite a cancellare totalmente. E' l'ombra nera della violenza, che anche nell'agone politico delle democrazie moderne, riaffiora come un fiume carsico. E' il caso dei 55 giorni della prigionia e del calvario di Aldo Moro, antieroe italiano per eccellenza, martire che non avrebbe voluto morire, spettro che riaffiora a distanza di trenta anni e fa ancora tremare le coscienze democratiche degli Italiani.