Raccontare la storia di alcune generazioni, con lo strumento popolare delle canzoni, e con la voce e il volto di un protagonista che si presenta sul palcoscenico a evocare una storia con la sua stessa presenza: la voce, la chitarra, l’immagine anche fisica di Shel Shapiro rappresentano un esercizio mentale irresistibile, che serve per recuperare il clima di un’epoca, lo spirito del tempo, l’intera psicologia di chi ha attraversato i decenni dai primi anni Sessanta in poi. Già, i Sessanta sono un decennio “seminale”, in cui sembra essersi concentrata una creatività, una energia sociale, ma anche intellettuale, culturale, comportamentale, davvero irripetibile.
Se pensiamo all’America di Bob Dylan, a una voce mai sentita prima che annuncia il tempo nuovo, che investe i grandi raduni civili e politici dell’età kennediana e post-kennediana, abbiamo una fotografia suggestiva del cambiamento. Ma prima dobbiamo avvertire anche l’eco delle canzoni e del surf dei Beach Boys, e subito dopo gettare uno sguardo sull’epoca in cui i festival e i grandi raduni raccolgono il mondo giovane, i beatnik, gli hippie, a Newport come a Woodstock. Peace and Love, pace e amore, nel fango di Woodstock.
E qualche anno prima la ballata elettrica e dolente di Dylan, «a hard rain’s gonna fall». È la grande società che richiama inesorabilmente le note di The Way we Were, Barbra Streisand e Robert Redford come campioni ancora ingenui della rivoluzione democratica, quando non eravamo così cinici, e la politica era una speranza che davvero «the times, they are a-changin’», e che il mondo potesse veramente avere una svolta. Ma nello stesso tempo dobbiamo anche pensare all’Europa e all’Italia di allora.
All’Inghilterra delle “cavern”, in cui emergono i “complessi”, oggi diremmo le “band”, che trasformano radicalmente il modo di fare musica e di stare insieme. Nell’immaginario musicale esplode il suono distorto del riff di Satisfaction, i Beatles impongono una specie di rivoluzione, in cui si sperimenta tutto. E intorno a loro, ai fondatori della musica nuova, si affollano i grandi epigoni, gli eredi del blues, gli Animals di Eric Burdon, i Them, gli Who. Sullo sfondo di un mutamento impressionante, una società per molti versi “ingenua” sperimenta intanto per la prima volta il benessere di massa.
E aspetta qualcosa. Anche in un’Italia che esce a fatica dalla sua arretratezza, cambiano le parole e le note, tira un’aria nuova, i simboli si svecchiano, le star cambiano volto. Va da sé che l’ambiente culturale e politico aspetta una rottura, che arriverà puntuale con il maggio francese e con il Sessantotto; ma prima ancora che sul piano politico la “rivoluzione” avviene nei comportamenti, nelle mode, nei pensieri collettivi. Si vede una metamorfosi nel paesaggio umano. Cambia l’abbigliamento, si modificano in modo impressionante i comportamenti fra adulti e giovani, e le relazioni fra ragazzi e ragazze, l’eros guadagna stili nuovi: «Sapore di sale, sapore di mare, che hai sulle labbra, che hai sulla pelle».
Si tratta di un cambiamento a suo modo “politico”, ma in primo piano ci sono le emozioni, le suggestioni, c’è la sensazione che si stiano aprendo possibilità inedite. Qui da noi la musica assimila velocemente l’idea del cambiamento. Emerge la protesta, «come potete giudicar», «è la pioggia che va», «noi non ci saremo», «Dio è morto»: un sentimento che non è ancora programmatico ma è collettivo, condiviso, sentito da tutti come una specie di destino a cui si è chiamati, e che ciascuno interpreta alla propria maniera, ora festosa, ora arrabbiata, perché in ogni caso il mondo è giovane, può attendere anche se è impaziente.
Che cosa è rimasto di tutto questo? L’atmosfera degli anni Sessanta, o il “sogno” di quel decennio, illumina di una luce diversa anche i decenni successivi. I Settanta con l’impegno, i cantautori, il conflitto politico; gli Ottanta con il ritorno al privato, all’individualismo, e poi all’esplodere del capitalismo di massa, quando in Nove settimane e mezzo Mickey Rourke dice a Kim Basinger, che gli chiede che lavoro fa, «I make money by money», faccio i soldi con i soldi. Ma anche ascoltando gli U2, o il rock contemporaneo, viene il sospetto che quasi tutto sia nato allora, all’epoca dei Byrds e dei Pink Floyd, di Donovan e di John Lennon.
E allora vale la pena di raccontare questa storia, oltre quarant’anni di contemporaneità e di cambiamento, come se fosse una storia simultanea, in cui le canzoni contrappuntano i sentimenti e gli avvenimenti, fanno da sfondo, e talvolta diventano il decalogo, della trasformazione sociale e culturale in cui ci siamo trovati. Ascoltare una canzone, o riascoltarne un accenno, la strofa, l’inciso, le parole chiave, significa immergersi di nuovo nell’atmosfera in cui essa è nata, riviverne la memoria, riassaporare i pensieri e i sentimenti di allora e di oggi.
E cercare nelle canzoni di oggi una consapevolezza altra, che ci aiuti a guardare al futuro. “Stragi, sogni & rock’n roll”, con le canzoni eseguite o solo accennate, le parole che suggeriscono l’idea di un mondo, e con l’effetto della musica eseguita dal vivo, e delle parole cantate da un protagonista che ricorda, con amore ma senza rimpianti, il tempo che abbiamo attraversato, è una conversazione rivolta al pubblico quasi come una confidenza, per indurlo a ricordare, a rimettere a fuoco, a rivivere.
È una melodia in minore, senza retorica. Con un po’ di inevitabile nostalgia, ma anche forte della consapevolezza di cui disponiamo oggi. Per dire come eravamo, e per vedere come siamo diventati, sapendo che quei tempi non torneranno, ma li si può fare rivivere, risentire, in modo che ci appartengano ancora, e che li sentiamo ancora nostri.
Edmondo Berselli
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