PRATO, 11 NOVEMBRE 2005- La fibra di kashmir ha un DNA. Così la tecnica di identificazione genetica entra nel manifatturiero per poter fornire al consumatore prodotti di alta qualità e informazioni veritiere. Problema delicato, quello della certificazione, a causa della presenza sul mercato di nuove miste ed incroci che rendono particolarmente difficile il riconoscimento del kashmir attraverso le tradizionali tecnologie di analisi al microscopio.
Se n’è parlato, oggi, al convegno di Prato “Kashmir: la produzione, il mercato, la qualità”, organizzato dall’Unione Industriale Pratese e dalla Camera di Commercio di Prato, con la collaborazione di SMI-ATI, e la sponsorizzazione di BSP Broker di Assicurazioni, che ha visto contributi inediti internazionali e la partecipazione del CCMI-Cashmere & Camel Hair Manufacturers Institute, l’organismo che riunisce i più importanti nomi mondiali dell’industria del kashmir, fra produttori, commercianti ed utilizzatori.
Una fibra di non facile reperimento, quella del kashmir, ricavata dal sottovello della capra Hircus, allevata in Cina, Mongolia, Tibet, Iran e Afghanistan, che riesce a fornirla solo se pascola ad alte quote. Pregiata, perché per fare una maglia servono 3 caprette, pari a 5kilometri e mezzo di filo, dal momento che ogni animale ne produce 450 grammi all’anno.
“Con questo convegno – ha spiegato Carlo Longo, presidente dell’Unione Industriale Pratese - abbiamo voluto affrontare, per la prima volta, il tema a 360° gradi: dalle problematiche di mercato a quelle di etichettatura, dagli aspetti normativi a quelli tecnico-analitici”
La Cina, maggiore produttore di sucido (il kashmir grezzo), ha raggiunto nel 2004 una produzione di quasi 14mila tonnellate, coprendo il 71% del totale, seguita dalla Mongolia (2.140 tonnellate pari all’11%) e dall’Iran (1.600 tonnellate pari all’8%).
Le stime sul prodotto finito indicano, invece, 14.037.000 maglie esportate dalla Cina nel 2004, destinate ad una fascia di mercato medio bassa, a fronte di 1.788.450 maglie in cachemire esportate dall’Italia, ma destinate ad una fascia alta.
“Se i volumi di importazione di kashmir in Italia sono circa il 35-40% dell’intero commercio mondiale - ha proseguito Longo - non credo di sbagliare dicendo che buona parte di questa enorme quantità di fibra nobile passa, almeno per una qualche fase di lavorazione, in mani pratesi coinvolgendo 7.500 addetti”.
Prato lavora moltissimo kashmir, ed in generale l’Italia è una importatrice e trasformatrice di kashmir di primo piano.
I dati sull’import italiano danno il senso dell’importanza di questa produzione che, in continua crescita, ha raggiunto 2.482,60 tonnellate per un valore di 153.760.000,30 euro, nel 2002,; 2.614,20 tonnellate, per € 136.771.000,90, nel 2003: e 3.373,30 tonnellate per € 167.494.000,10 nel 2004, con un crescita del +22,46%.
In questo contesto, il rilancio del Made in Italy manifatturiero, nella competizione internazionale, dipenderà da come il Sistema Italia saprà far fronte a tre grandi sfide: il rapporto con la Cina, il rilancio della ricerca e dell’innovazione nel nostro Paese, la tutela della qualità.
Perché “fatto in Italia significa prodotto di qualità” come ha sottolineato Luca Rinfreschi presidente della Camera di Commercio di Prato che ha parlato del progetto di un sistema di tracciabilità volontaria, sul quale stanno lavorando le Camere di Commercio, “che permetta alle imprese interessate di tracciare una carta di identità del prodotto che vanno ad immettere sul mercato”.
“Fornire alle imprese – ha aggiunto - uno strumento che permetta di mostrare in etichetta la storia del prodotto che va ad immettere sul mercato, significa quindi creare un sistema che potenzia la competitività”.