Per certi versi, quello che è riuscito a Ludovico Einaudi si può considerare una sorta di miracolo. Merito, forse, del suo stesso background, capace di spaziare con naturalezza dal rock dei Beatles all’avanguardia di Stockhausen, fatto sta che l’iter che lo ha contraddistinto testimonia appieno un’intima ansia di sondare i confini dell’Arte, ammesso che questi esistano davvero. E così, dopo le collaborazioni degli anni ‘70 con Gigi Venegoni, i successivi studi con Luciano Berio hanno condotto l’artista torinese a un discorso di ricerca nell’ambito della classica contemporanea.
Però - e qui sta il miracolo - tutto ciò non si identifica affatto con uno sterile ermetismo: quella di Einaudi è musica ‘colta’, certo, ma che non perde mai di vista l’urgenza comunicativa con la gente ‘comune’, tanto che oggi il suo nome è conosciuto e apprezzato fra ampi strati di audiofili dai gusti più disparati, e il suo messaggio ha definitivamente un respiro europeo. Nell’ideale cornice del Teatro Romano di Fiesole, il concerto ha confermato, e anzi amplificato, le maiuscole prerogative del pianista e compositore.
Nel corso di un’intensa performance dipanatasi lungo quasi due ore, Einaudi ha deliziato il numeroso e attentissimo pubblico, quantomai eterogeneo per età e tipologia, offrendo il meglio della sua ormai cospicua produzione discografica. E così ci siamo ritrovati cullati nelle avvolgenti e morbide spire di un avvincente minimalismo, forse malinconico eppure così vitale, debitore il giusto nei confronti di Philip Glass e soprattutto Michael Nyman, ma ormai affrancato da troppo ingombranti riferimenti.
Uno stile espressivo che, nella sua struttura circolare, è solo in apparenza immobile: basta poco per scoprire tocchi di pennello delicati, raffinati, sempre nuovi. Davvero grande la capacità di sintesi del Nostro, che fra dolcezze ambient à la Brian Eno e la particolare ‘appropriazione’ di “Lady Jane” dei Rolling Stones (!), ci ha fornito un significativo saggio di una creatività che trascende le dimensioni spazio-temporali. Quanto all’Einaudi interprete, è addirittura superfluo rimarcarne qui la perizia e la pulizia tecnica, posta sempre, comunque, al servizio di un’intelligente sensibilità.
E alla fine del concerto, che ha raggiunto il suo culmine emotivo nella celeberrima “Le onde”, si è avuta la certezza di aver assistito a un evento che ha scardinato proprio alla base il rigido dualismo fra musica ‘alta’ e ‘bassa’, consegnandoci un artista di rango che, con Arturo Stalteri e pochi altri, è oggi in grado di tener alto il nostrano vessillo della contemporaneità. Francesco Fabbri