Il lavoro flessibile cresce anche in Toscana, ma meno di quanto ci si aspetterebbe. Questa forma di occupazione, inoltre, non è ritenuta vantaggiosa né dai lavoratori, ma nemmeno da molti imprenditori. Pochi imprenditori, infine, dichiarano di conoscere e di voler utilizzare la nuova legge Biagi. Sono questi i dati più significativi di un’indagine sul lavoro flessibile in Toscana, svolta dall’Irpet, l’Istituto regionale per la programmazione economica, su commissione del Consiglio regionale.
I risultati della ricerca sono stati presentati questa mattina in Consiglio regionale durante una conferenza stampa, a cui hanno preso parte il presidente del Consiglio Riccardo Nencini, il presidente dell’Irpet Sergio Zanetti, il dirigente dell’Irpet Giovanni Maltinti e la ricercatrice Francesca Giovani, che ha coordinato il gruppo di lavoro autore dell’indagine. Lo studio si è avvalso di un’indagine diretta su un campione di circa 2000 lavoratori temporanei e di 700 imprese, ponendo al centro dell’analisi le cause, le forme e anche le conseguenze sociali delle nuove modalità di lavoro.
Il presidente Riccardo Nencini ha spiegato che “la ricerca commissionata dal Consiglio è prodromica a una futura proposta di legge sul lavoro flessibile”. Nencini ha anche sottolineato l’aumento delle collaborazioni tra Consiglio e Irpet, rilevando come il dato più evidente della ricerca “che ci dice che il lavoro flessibile non ha contribuito di molto ad aumentare l’occupazione, sorprende perché va contro quello che un po’ tutti pensavamo”. Sergio Zanetti ha ribadito che la ricerca, oltre ad analizzare il fenomeno, ha preso in considerazione i risvolti sociali, mentre Giovanni Maltinti ha spiegato che il tentativo è stato quello di “guardare il lavoro flessibile con un’ottica multilaterale, considerando le varie sfaccettature”.
Come ha spiegato Francesca Giovani, la ricerca mostra che le forme di lavoro a tempo determinato hanno contribuito, ma non in modo così rilevante come si crederebbe, alla crescita dell’occupazione. Le occupazioni temporanee crescono in misura consistente dal 1993 al 1995, periodo in cui siamo di fronte a un vero e proprio processo di sostituzione di posti stabili con lavoro temporaneo. A partire dal 1999, con la ripresa economica, le imprese cominciano ad assumere secondo il modello tradizionale del lavoro a tempo indeterminato.
Negli anni immediatamente successivi, grazie anche agli incentivi alla stabilizzazione previsti dalla Finanziaria del 2000, si assiste in Toscana persino a una riduzione del lavoro temporaneo. L’aumento di occupazione in Toscana è soprattutto un aumento femminile, di donne che hanno ottenuto contratti part-time a tempo indeterminato: dato, questo che deve far riflettere sulle future politiche di incentivazione del lavoro femminile. Un altro dato emerge con chiarezza: i lavoratori flessibili toscani non sono tali per una loro scelta di autonomia.
La stragrande maggioranza degli intervistati dichiara infatti di aver accettato un lavoro di questo tipo in assenza di altre alternative (64%), e il 16% di averlo fatto per integrare il reddito familiare e per gestire in modo flessibile i tempi. L’indagine ha anche analizzato i percorsi di lavoratori che nel 2000 risultavano aver avuto un avviamento al lavoro con una tipologia contrattuale flessibile. Tra coloro che nel 2000 risultavano instabili, il 36% degli intervistati si è stabilizzato con un contratto a tempo indeterminato, il 5% ha un’attività di tipo autonomo, il 24% è ancora flessibile, l’11% è in cerca di lavoro, il 20% è uscito dalle forze di lavoro di cui il 48% come studenti, il 34% come casalinghe e l’11% come pensionato.
Sono le donne ad avere minori probabilità di stabilizzazione nel lavoro e un maggior rischio di uscita dalle forze occupate. Nell’uscita dal mercato del lavoro ha un ruolo rilevante la maternità: tra le donne non più attive vi è una larga concentrazione di madri. La maggioranza degli intervistati vorrebbe che fosse resa più sicura l’occupazione, incrementando il lavoro a tempo indeterminato. Analizzando invece il punto di vista delle imprese, l’indagine dimostra che nelle aziende sono emerse forti disomogeneità rispetto all’utilizzo di lavoro flessibile, attribuibili a fattori precisi: il fattore settoriale (il lavoro non standard è più facilmente utilizzabile nel terziario), il fattore territoriale (la flessibilità si adatta male al contesto distrettuale, molto meglio alle aree turistiche), il fattore di genere (le donne sono molto più presenti nelle forme di lavoro flessibili).
L’occupazione flessibile cresce soprattutto nelle grandi imprese, mentre le piccole trovano difficile utilizzarla. Ben pochi imprenditori (14%), infine, dichiarano di conoscere la legge 30 del 2003, la cosiddetta legge Biagi, e pochissimi dichiarano di prevedere l’utilizzo delle nuove forme di lavoro flessibile. La maggior parte degli imprenditori intervistati ritiene che le forme non standard di lavoro non siano particolarmente vantaggiose neppure dal punto di vista del costo. Solo le imprese di maggiori dimensioni contano di trarre profitto da un incremento della quota di lavoro flessibile.
Sui risultati della ricerca si terrà una tavola rotonda lunedì prossimo 31 gennaio, alle ore 10, nella sala del Gonfalone del Consiglio regionale, in via Cavour 2 a Firenze. (cem)