Un campo di concentramento nazista. Il gracchiare di un altoparlante che scandisce la giornata. Una baracca fatiscente. Un grammofono. Un ufficiale in divisa: Karl Hoffmann, musicista fallito di Brema. Due ebree, deportate italiane: Sara Di Nola e Lidia Cantù, rispettivamente attrice teatrale e cantante di cabaret. Sullo sfondo la “Norma” di Vincenzo Bellini. Nasce dall’alchimia di questi elementi la tessitura teatrale di “Norma 44”, vibrante prova drammaturgica di Dacia Maraini che ritrae con intensa profondità e spiazzante acume l’inverosimile scommessa di allestire un’opera lirica nel grigio squallore del lager.
E la scrittura della Maraini riesce nel difficile compito di andare oltre la miseria, oltre la spietatezza, oltre la cronaca gelida di una follia cieca, sviluppando invece l’intuizione di una lotta estrema fra le due facce del genere umano: da un lato la suprema sublimazione dell’arte, dall’altro lato gli orrori della sopraffazione, l’azzeramento della dignità, la bestialità dell’istinto. Ecco allora che si profila sulla scena un qualcosa di ben più intrigante di un realistico ritratto di miserie: il dialogo tesissimo fra i tre personaggi diviene lentamente una partita a scacchi enigmatica fra la potenza struggente della Poesia e la sua stessa negazione, fra quella ricerca di perfezione che è la vita dell’uomo e l’ambizione perversa di tagliare le ali alla bellezza.