Khaled (Cheb Khaled nella produzione antecedente al 1992, anno in cui, con l’uscita del disco Khaled espunge l’epiteto Cheb dal suo nome d’arte) è probabilmente il musicista arabo più conosciuto in Italia. Anche il semplice ascolatore distratto ha sicuramente avuto modo di sentire alla radio uno dei suoi successi degli ultimi anni o di ballarlo in qualche discoteca più o meno alla moda. Didi e/o Aïcha sono entrate ormai nel bagaglio musicale comune di molti italiani, come brani facili e canticchiabili.
Anche ieri sera questi due hit non potevano mancare: Aicha, dei due forse il più orecchiabile, avendo un testo per lo più in francese, ha chiuso in grande stile il concerto a piazzale Michelangelo.
Eppure questi due pezzi dal refrain accativante e coinvolgente, leggeri e apparentemente poco significativi, rappresentano solo la parte più emrgente di un ampio repertorio, con il quale Khaled si colloca a pieno titolo nell’alveo di una tradizione importante della cultura musicale dell’Africa Settentrionale.
Egli è, infatti, il rappresentante più famoso al mondo, senza con ciò essere il meno fedele (a dimostrazione che la fama internazionale non causa necessariemente la recisione delle proprie radici), di una corrente di interpretazione della musica e del canto propria dell’Algeria nord-occidentale, il Raï (da un vocabolo arabo, ra’y, che letteralmente significa “opinione, parere”). Il Raï, come forma artistica peculiare, nasce nella seconda metà del secolo diciannovesimo nella città di Orano (Wahran), sulla costa occidentale dell’Algeria, la città dove Camus ha ambientato La Peste, e in un sobborgo della quale (Sidi al-Houari, dal nome del santo patrono della città), lo stesso Khaled è nato il 29 febbraio del 1960.
Per sua città natale, Khaled ha un amore profondo che non ha mancato di manifestare anche ieri, collocando al centro del suo concerto due pezzi notissimi del suo repertorio, ambedue intitolati Wahran (uno è dall’album Khaled, l’altro da Hefla) e dedicati a ricordare con nostalgia mista a paura Orano che cambia o che si è dovuto lasciare. Orano, durante la colonizzazione francese, attira un gran numero di musicisti, cantori (uomini e donne: le meddahat), poeti itineranti e intrattenitori che aspirano ad esibirsi nei caffè, nelle piazze e nei mercati cittadini.
Hanno un repertorio duplice, che a testi e melodie molto tradizionali, portati nell’ambiente urbano dalla loro orginario habitat rurale e suonati con una strumentazione molto semplice e antica, unisce, anche per venire incontro al gusto cittadino, una serie di brani che toccano argomenti più spinosi come l’amore (in tutte le sue manifestazioni anche quelle espressamente carnali), le passioni forti, l’alcool, la “débauche”, la politica. A tutti questi artisti, che formano un gruppo compatto di più di una ventina di nomi, per limitarsi ai più famosi, è dato il titolo onorifico di Cheikh (anziano; al femminile Cheikha).
Essi sono stati il lievito antico da cui sono nati gli Cheb (letteralmente: giovani; femminile Chebba), che hanno portato il Raï ad essere un fenomeno di rinomanza mondiale. Gli Cheb fioriscono attorno agli anni settanta del secolo scorso e giungono al termine di un processo di evoluzione della musica oranese che ha subito l’influenza della musica europea tra le due guerre, della musica araba orientale (cherghui), di ritmi venuti dalla Spagna (una buona parte della popolazione di Orano nel periodo coloniale era di origine spagnola).
Gli Cheb riprendono non solo l’ispirazione generale che alimentava il canto degli cheikh, ma talvolta anche i loro stessi testi. Così proprio Khaled ha nel suo suo repertorio: Abdelkader, che ripropone un testo di Cheikh Abdelkader ben Tobji (1871-1948) dedicato al celeberrimo santo musulmano ‘Abdalkader al-Djilani, ieri suonato con grande trasporto e inframezzato da un breve ma intenso assolo di chitarra elettrica; Bakhta, su di un testo di Cheikh Abdelkader el-Khaldi (1896-1964) che Khaled ha interpretato ieri accompagnandosi alla fisarmonica; el-Marsam, canzone scritta negli anni venti da Cheikh M’hammed Er-Rouge; Shab el-Baroud, dagli evidenti significati politici, che riprende un testo del 1931 di Houari Hanani, mentre la citata Wahran, inno di nostalgico amore per la città di Orano, inserito nell’album Hefla, è di Ahmed Wahby (Marsiglia 1921-Orano 1993), una delle figure più significative dell’ “età di mezzo” del Raï, ponte tra la fase degli Cheikh e quella degli Cheb.
Ma gli Cheb si distanzano - ed è naturale che lo facciano- dagli Cheikh sotto vari profili.
Orchestrano i loro testi facendo ampio uso di tutta la strumentazione occientale moderna, elettrica, e accogliendo ritmi puramente europei o sudamericani (il flamenco, il reggae, il blues, il jazz). Producono testi sempre più audaci che violano apertamente la hechma (il “comune senso del pudore”) toccando temi molto scabrosi in forme esplicite: amori clandestini, tradimenti, sesso, ma anche povertà, disoccupazione, disperazione giovanile, violenza, alcool e gusto per il divertimento fine a se stesso, per la festa senza motivo.
Un certo disincanto venato di nichilismo si affacia amaramente qua e là tra le righe (Khaled ha cantato ancora ieri: “Niente, Niente, Niente/Al mondo non dura niente/Nel letto del fiume rimangono le pietre”). Molti in Algeria si scandalizzano, sia tra le fila dei tradizionalisti islamisti che in quelle dei benpensanti “laici” al governo. Cheb Hasni, un collega di Khaled, è ucciso a Orano nel febbraio 1995, come seminatore di impudiciazia, lo stesso Khaled per molti anni non ha potuto tornare in patria per paura di subire aggressioni.
La fusione di questi elementi differenti in Khaled è forse più evidente e più ampia che in altri Cheb.
Questo è sicuramente dovuto alla fama internazionale raggiunta da Khaled e al fatto che per lunghi anni egli abbia vissuto in Francia, a contatto con la musica europea ed americana. E’ però innegabile che sono soprattutto le qualità personali di Khaled che fanno di lui un artista polidrico e versatile, raffinato ma nello stesso tempo popolare, capace di amalgamare più e meglio di altri suoi confratelli suggestioni e influenze di origine diversa con la tradizione oranese del Raï. Ecco quindi che si può apprezzare la sua voce calda e avvolgente dagli accenti talora mestamente cupi, talora squillanti e inquieti, nervosamente allegri ma mai veramente felici e spensierati, che segue in maniera apparentemente naturale i salti di stile dei brani.
La successione dei pezzi in scaletta mette, infatti, in evidenza la varietà di suggestioni recepite da Khaled e da lui fuse in una forma sempre piacevole e mai banale nella sua produzione musicale. Dal Raï più puro alla musica araba orientale, dal jazz al reggae, dal flamenco al rock: l’orchestra che ha accompagna Khaled è anch’essa lo specchio di questa compresenza di elementi diversi, comprendendo oltre al liuto (‘ud), il principe degli strumenti della musica araba tradizionale anche la chittarra elettrica, la tromba ed il sax.
Il successo che Khaled si è guadagnato presso i suoi connazionali e in tutta l’Africa del Nord (anche ieri almeno la metà del pubblico era costituita da nordafricani), è forse la migliore dimostrazione che egli ha saputo dare voce con la sua musica ed i suoi testi, così compositi e vari, ad una dimensione culturale ed esistenziale sentita come la più vera da larga parte delle masse, soprattutto quelle giovanili del Maghreb, che si specchiano immediatamente in quanto da lui cantato e suonato.
Ci piace pensare che questo possa essere di buon auspicio per tutti coloro che vivono sulle terre che si affacciano su quel grande lago che è il Mediterraneo.
[Alessandro Gori]