David Lees: L’Italia nelle fotografie di LIFE, alla Galleria degli Uffizi, Reali Poste, da oggi al 30 novembre 2003

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
18 ottobre 2003 15:07
David Lees: L’Italia nelle fotografie di LIFE, alla Galleria degli Uffizi, Reali Poste, da oggi al 30 novembre 2003

Firenze – “Che cos’è una bella foto? -si domanda David Lees nell'introduzione del proprio catalogo- Per me è come un quadro agli Uffizi: bella luce, forme giuste. Certo, dev’esserci anche un contenuto. Prima della guerra ero un appassionato dilettante che faceva foto senza senso. Mi piacevano, le trovavo belle. Non le potevo vendere, ma era una passione che volentieri alimentavo. Poi partii soldato: Albania, Francia, Svizzera. Tornai a Firenze dopo sette anni e mezzo. Era distrutta. Per fortuna ritrovai mia madre Dorothy.

L’avevano arrestata perché inglese, oltre che giornalista (scriveva sul Times), e non poteva più lavorare. Dovevo dunque fare qualcosa anche per lei. Mi ricordai allora della vecchia passione e divenni fotografo.
“Ebbi fortuna. Un insegnante dell’Istituto d’Arte di Porta Romana, Enrico Bettarini, mi disse che un fotografo americano, a Firenze per ritrarre gli affreschi di Benozzo Bozzoli, stava cercando un assistente. Pensai che fosse un’ottima alternativa all’impieguccio (battere a macchina e fare traduzioni) trovato in un ufficio dell’esercito alleato.

Il fotografo alloggiava all’Hotel Excelsior. Non fu un incontro entusiasmante. Gli piaceva bere ed era spesso ubriaco. In un primo momento mi disse ok, salvo cambiare idea il giorno dopo. Ma tanto insistetti che alla fine mi ingaggiò. Gli sviluppavo le foto, badavo alle luci, gli facevo da autista, da interprete e lo riportavo in albergo quando era troppo brillo per reggersi in piedi. Si chiamava Burgess e veniva dal Tennessee. Si occupava solo di dipinti, non faceva altri reportage. Quello alla Cappella dei Magi gli era stato commissionato da LIFE per il primo numero a colori, nel ‘45.

Sempre con lui feci Piero della Francesca ad Arezzo e la Cappella degli Scrovegni a Padova. Avevo 27 anni.
“In quegli anni l’Italia era in ginocchio. Bisognava lavorare sodo per vivere e per far rivivere il Paese. Aiutai Burgess in giro per l’Europa, finché un giorno, in Belgio, di nuovo ubriaco, distrusse un impianto d’illuminazione costosissimo. LIFE non volle più saperne. Mandò perciò un sostituto con cui dovetti rifotografare tutto ciò che Burgess aveva sbagliato. Grazie ai buoni risultati, la redazione romana (LIFE aveva uffici anche a Parigi, Berlino e Mosca) mi chiese di andare a lavorare nella capitale.

Avendo famiglia a Firenze, feci il pendolare per un po’, fermandomi a Roma anche per 10-20 giorni. Lavoravo per lo più in ufficio, rispondevo al telefono, ma giravo anche in auto. E andavo in Vaticano, una frequentazione che mi fu molto utile anni dopo. Difatti, quando si trattava di Papi o di funzionari, LIFE mandò sempre me.
“Un giorno si trattò di partire per Passiano, dalle parti di Salerno, per un matrimonio tra una ragazza del posto e un soldato americano. Il servizio andò molto bene.

Così, quando LIFE mise in cantiere una serie di speciali sulle grandi province d’Europa, toccò a me occuparmi della Toscana. Fu un tale successo che subito mi affidarono un secondo servizio: la Castiglia. Poi, per Pasqua, mi spedirono a Gerusalemme. Da allora fu un crescendo. I reportage mi erano per lo più commissionati dalla redazione newyorkese, dal direttore della fotografia. Una delle persone con cui collaboravo di più era Dorothy Seiberling, senior editor della redazione arte. Per lei feci Venezia, l’alluvione di Firenze e vari altri servizi.
“Sempre più impegnato, decisi di trasferirmi a Roma (mia madre rimase invece a Firenze) e quando nel 1951 mi sposai, portai con me tutta la famiglia.

Fu un successo dopo l’altro. Fino al 1972, quando LIFE chiuse i battenti e la redazione fu praticamente smantellata. L’editore, ossia il gruppo Time, mi offrì di restare, ma avevo capito che la mia avventura ormai era finita. Così mi trasferii a Milano e per 9 - 10 anni mi detti alla pubblicità: per la Fiat e altri. Alla fine tornai a Firenze: avevo un incarico dallo Smithsonian Institute, ma feci anche reportage per Time Magazine, People e altre pubblicazioni.
“Ai tempi di LIFE, intorno alla rivista ruotavano fotografi come Eisentead, Kessel, Silk (nelle sue foto delle Olimpiadi si vedeva il futuro), Ralph Moss, un artista delle missioni lunari.

Era così bravo e famoso che si diceva che a Cape Canaveral senza di lui il count down non l’iniziavano neppure. Le sue foto erano incredibili e richiedevano un grandissimo lavoro di preparazione. Prima dei lanci posizionava macchine ovunque per riprendere da tante posizioni e distanze diverse il razzo che si allontanava. Era una cosa che dovevi studiare, una sorta di lavoro ingegneristico. L’aiutai solo una volta, all’inizio. Mi chiese: come faccio a fotografare una cosa luminosa, piena di fuoco, che va nel sole? Non si vede niente.

In studio facemmo vari tentativi, con schermi colorati e altro, e alla fine riuscimmo a isolare l’oggetto luminoso.
“A parte questi, che erano dipendenti della rivista, LIFE pubblicava periodicamente tutti i grandi fotografi internazionali. Non aveva rivali: nemmeno Paris Match e Look erano all’altezza. E LIFE ovviamente era contenta dei vari Cartier Bresson che proponevano i propri servizi, anche se la trentina di fotografi della redazione riuscivano, da soli, a coprire quasi tutto. Mister Luce, il fondatore e padrone della rivista, aveva definito la filosofia del fotografo LIFE: guardare ai grandi, ai potenti, ai poveri, al male, al bene.

La nostra professione è guardare tutto ciò che è la vita.
“Nata nei primi anni Trenta, fino al ‘72 LIFE non si è mai fermata, neppure durante la guerra. Nel ‘78 hanno anche ripreso per qualche tempo le pubblicazioni. Periodicità quindicinale, formato un po’ diverso, ma non ha più funzionato. La pubblicità ormai se la mangiava tutta la TV e quella che restava non bastava più a mantenere un organo costosissimo. Basti pensare che per i fotografi alloggiavano nei migliori alberghi.

Viaggiare allora non era come oggi, gli aerei costavano moltissimo. E in più dovevamo essere pronti a partire da un momento all’altro, dunque pagando sempre tariffa piena. Io stesso, all’epoca in cui vivevo a Roma, quando venivo a Firenze stavo in una suite al Grand Hotel, dove potevo ricevere il sindaco e altre autorità. Gli altri colleghi magari aspettavano mesi, LIFE mai. Una volta, ad Atene, alle 4 del mattino accesero le luci dell’Acropoli solo per me. Questo era potere. Oggi non esiste più un giornale simile.

E’ cambiata la filosofia.
“Tra LIFE e Magnum, la grande agenzia fotografica, c’era una differenza sostanziale: alla Magnum tutti dovevano organizzarsi in proprio, erano totalmente autonomi e soli. LIFE, invece, era un’enorme organizzazione che ti aiutava, ti finanziava, ti spianava la strada. Quando dovevi partire predisponeva tutto, dal volo all’albergo ai contatti. Dubito che avrei potuto lavorare col sistema Magnum e se ripenso all’esperienza con LIFE credo che indubbiamente sia andata meglio così.

Una volta a Roma mi invitò a cena Bob Capa. Era molto famoso e girava con una bellissima modella di Dior, cinese. Al ristorante mi propose di passare alla Magnum. In quel periodo da LIFE avevo già piccole proposte, ma ancora non era una cosa sicura. Capa mi vide incerto e mi disse “D’accordo, vado in Indocina e quando torno mi dai una risposta”. Fu il suo ultimo viaggio. Il destino decise anche per me.
“Da fiorentino, penso che l’evento più importante che ho coperto è stata l’alluvione del ’66.

Quando l’Arno ruppe gli argini vivevo a Roma ed ero a casa, malato. Dei miei a Firenze non ci viveva più nessuno dacché mia madre e mio padre erano morti proprio nella primavera e nell’estate di quell’anno. A darmi notizia del disastro fu la Seiberling da New York. Il giorno dopo, su un volo militare, raggiunsi Pisa e da lì, in elicottero, arrivai a Campo di Marte. Atterrai dentro lo stadio. La città era ridotta in condizioni tremende. Ricordo Carlo Barocchi, un amico gioielliere che aveva il negozio su Ponte Vecchio.

Lo vidi in ginocchio in mezzo al fango tentare di recuperare le cose perdute.
“In quell’occasione dovetti fare una scelta, molto criticata dagli amici fiorentini. Sostenevano che gli esseri umani sono la cosa più importante. Vero. Ma nelle foto che in quei giorni scattai a Firenze privilegiai le opere d’arte. Le alluvioni ci sono tutti i giorni in tutto il mondo e gli esseri umani soffrono dappertutto. Ma una città come Firenze era stata colpita soprattutto nel suo patrimonio artistico e quello fu il tema che decisi di documentare.

A Longarone, distrutta dal crollo della diga del Vajont, la tragedia era stata soltanto umana, a Firenze la cosa era diversa. Mi concentrai dunque sul disastro artistico: andai in Santa Croce, in San Marco, all’Accademia, vidi pale e sculture emergere dal fango. Andai alla Biblioteca Nazionale, nello stesso giorno in cui arrivò in visita Ted Kennedy. Furono momenti davvero speciali. In seguito mi fermai a lungo a Firenze per seguire i restauri.
“Sono stato testimone di varie catastrofi naturali, ma mi sono occupato anche di fatti meno drammatici: di arte, di cultura e ho avuto molto a che fare con il Vaticano assistendo a incoronazioni, funerali e concili.

Ovviamente ho conosciuto tanti personaggi interessanti. Uno che più mi ha impressionato è stato Ezra Pound, conosciuto a Venezia. O Salvator Dalì o Bernard Berenson. Ho incontrato insomma tanti dei grandi personaggi che hanno fatto la storia culturale di quegli anni, fatta eccezione forse per Picasso (che era fotografato sempre da Duncan) e Einstein (che aveva invece Kaufmann come ritrattista ufficiale).
“Quella con LIFE è stata una grande avventura, lunga e piena di soddisfazioni. A volte anche un po’ rischiosa.

Come quando fui mandato a seguire un magnate del petrolio californiano, tale Candle. Stava girando il mondo su un piccolo aereo insieme alla famiglia. Li raggiunsi al Cairo e da lì, insieme, partimmo per Luxor con un idrovolante, poi verso Gerusalemme. Non avevamo il permesso di atterrare sul Mar Rosso, ma dopo aver sorvolato il Sinai, Candle volle farlo lo stesso. Scendemmo in Arabia Saudita, dormimmo all’aperto vicino all’aereo e, naturalmente, all’alba eravamo circondati da soldati. Il peggio arrivò più tardi, mentre i bambini stavano facendo il bagno e noi preparavamo da mangiare.

Cominciarono a spararci addosso, Candle fu ferito a una gamba, una signora anche. Tentammo di decollare rapidamente, ma per recuperare i bambini dal mare l’aereo imbarcò acqua. Insomma fummo fatti prigionieri e portati nel deserto.
“La mattina seguente arrivò un aereo con un dottore, visitò i feriti e stabilì che erano in grado di viaggiare. Così ci bendarono tutti e partimmo in volo per Gedda. Una volta nella capitale, l’ambasciatore americano assicurò che saremmo stati presto rilasciati.

Ma per riacquistare la libertà dovemmo aspettare ancora giorni. Lasciai Gedda per Beirut, dove c’era una delle agenzie di LIFE, e mentre eravamo in volo il pilota mi mandò a chiamare: era lo stesso che era venuto a prenderci nel deserto. Volandoci sopra, volle farmi vedere dove era rimasto il nostro idrovolante. In mezzo al mare, se ne stava andando alla deriva. Il governo di Washington non ne sapere di mettere a repentaglio le proprie relazioni con l’Arabia Saudita per difendere uno stupido americano che aveva fatto ciò che non doveva.

LIFE, invece, fu entusiasta di tutta la storia. Si trovò in mano una magnifica avventura, belle immagini e riuscì a pubblicare un servizio decisamente migliore del previsto. In quel caso fui intervistato per raccontare i fatti. L’articolo, però, lo scrisse un altro.
“Un altro reportage che mi ha coinvolto moltissimo fu quello sul soggiorno di Byron e Shelley in Italia ai primi dell’800: Venezia, Ravenna, Pisa, Lerici. Mi divertii così tanto a cercare immagini che potessero rappresentare le liriche dei due poeti inglesi, che proposi alla rivista un reportage analogo dedicato a Garcia Lorca e alla Spagna.

All’inizio LIFE rifiutò, ma quando si decise fu un successo straordinario. I giovani, all’epoca, amavano molto Lorca, lo consideravano un mito.
“I Papi li ho conosciuti tutti, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II. Paolo VI era quello che conoscevo meglio. Quando mi vedeva, quasi per gioco, mi parlava sempre in inglese e dovevo quindi dovevo ricordargli che in realtà ero fiorentino. Mi chiamava “my english florentine friend”. Con lui sono andato anche a Gerusalemme, a volte viaggiavo proprio con l’aereo del Papa e comunque ero in ottimi rapporti con tutte le persone che del suo entourage, dalle guardie agli interpreti.

Era una questione di fiducia e non ne ho mai approfittato: non ho mai fatto una foto non ufficiale, per esempio il Papa che faceva un gesto sbagliato. Un atteggiamento che ha pagato, perché in Vaticano giravo come se fossi a casa mia.
“Gianni Agnelli, che ho conosciuto bene quando lavoravo a Milano, lo avevo incontrato quando ancora stavo a LIFE. Mi era infatti capitato di fare un libro sull’Italia ed ero entrato in contatto con Valletta, all’epoca presidente della Fiat. Da LIFE mi chiesero allora di provare a conoscere questo avvocato Agnelli, erede designato dell’impero, che già esisteva in quanto tale, ma che ancora non era famoso.

Poteva essere il 1950. Approfittando del fatto che mi trovavo a Torino a fotografare Valletta, chiesi aiuto alla segretaria, la signorina Rubiolo, una potenza all’interno dell’azienda. Rispose: “Ma signor Lees? Che cosa le importa? Quello non conta mica niente”. Provai a insistere, dicendo che me lo chiedevano da New York. Lei disse gelida che la cosa poteva dispiacere al professor Valletta. Qualche ora dopo, finito il lavoro, me ne andai in giro per il Lingotto anche in zone dove il pubblico non aveva accesso.

Finché lo vidi. Stava fumando, seduto in un ufficio poco più grande di un tavolo, con un quadro del vecchio senatore Agnelli alla parete. Un bel giovane, elegante. Non aveva niente da fare, nessuna carta sulla scrivania. Mi sorride, mi invito a entrare, mi accolse con grande gentilezza. Gianni Agnelli se lo è sempre ricordato. Con tempo avremmo fatto insieme molti reportage.
“Mia madre, Dorothy Nevile Lees, lasciò l’Inghilterra per correre dietro al sogno di Byron e Shelley, i suoi poeti prediletti, e arrivò da sola a Firenze nel 1906.

Per mantenersi andò dai conti Pandolfini, in via San Gallo. Insegnava inglese in cambio di ospitalità. Li seguiva anche in campagna, a Tizzano, dove fece vari acquerelli. Più tardi, superata l’emergenza economica, si trasferì in uno studio sopra al Ponte Vecchio, un posto che ora non esiste più, distrutto dalla guerra. Visse lì per molti anni e lì scrisse molti numerosi libri. Poi arrivò a Firenze anche mio padre Gordon Craig, all’epoca un uomo già assai noto nel mondo del teatro sia in Inghilterra che in Europa.

A Firenze fondò la rivista “The Mask”. La mamma iniziò a collaborare, rimanendovi poi per molti anni: scriveva articoli, correggeva, impaginava, faceva di tutto. Pareva una redazione numerosa, perché le firme erano tante. In realtà erano sempre loro due con nomi diversi. A volte, per pagare i tipografi, la mamma dovette vendere alcuni dei suoi piccoli gioielli. Mio padre fondò anche la Scuola per l’Arte del Teatro. Poi venne la prima guerra mondiale, mancarono i soldi e chiusero tutto.

Io nacqui nel ’17, poco prima che il babbo partisse per la Francia. Invece la mamma restò a Firenze e iniziò la sua corrispondenza per il Times. Quando scoppiò la seconda guerra fu arrestata proprio per questo motivo. Rimase in carcere solo pochi giorni, ma ebbe l’ordine di non uscire di casa e di non scrivere più.
“Da ragazzo, in famiglia, non c’erano molti soldi e io, che avevo la passione per il nuoto, non potevo andare al Forte dei Marmi o, meglio ancora, a Capri. Così andavo al Bagno Omero.

Era lungo l’Arno, sotto al ponte Ferrucci, ma non si entrava gratis. Entrai a far parte della società sportiva Rari Nantes anche per non dover più pagare per fare il bagno. Quelli più bravi giravano l’Italia per le gare e anch’io decisi di impegnarmi. In breve diventai il migliore. Avevo 14-15 anni ed ero una delle stelle della società (facevo i 100 su dorso. La domenica la gente veniva a vederci nuotare e quasi ogni sabato, in terza classe, si viaggiava per l’Italia, da Trieste in giù.

Ho vinto tante medaglie. Alla rari società avevamo una vera star, Paolo Costa, campione europeo dei 200, 400 e 1500. Avevamo anche una fantastica squadra di pallanuoto che, nel ‘38-’40 vinse le Olimpiadi. C’erano Pandolfini, Goggioli, Valle. Quando partii militare smisi e 7 anni dopo, quando tornai a Firenze, tornai un po’ alla Rari, ma solo per fare qualche bagno.
“Un’altra grande passione è stata quella per lo sci. Nel partito fascista facevo parte degli avanguardisti e con loro andai ad Asiago per i campionati italiani.

Poi sono stato giovane fascista e a Dobbiaco ho gareggiato con Zeno Colò. Era un vero professionista, viveva di sci tutto l’anno, mentre noi di città si sciava solo d’inverno. Io, in particolare, appena arrivava la primavera tornavo al nuoto. Comunque quei viaggi all’Abetone li ricordo con grande affetto. C’erano questi torpedoni che partivano da piazza della Repubblica, che allora si chiamava piazza Vittorio Emanuele II. Avevano appena 25 posti, noi ci si saliva anche in 40. E ogni volta erano 4 ore ad andare e 4 a tornare”.

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