Celestini con il suo originale linguaggio teatrale sta sviluppando un’appassionata ricerca antropologica sull’Italia del Novecento, ma nella sua indagine, come in questo caso nell’ambiente industriale, riesce a scovare sotto scorie di modernità apparentemente sedimentata, frammenti di quell’homo italicus di cui parlava in termini nostalgici Pierpaolo Pisolini, un uomo di cultura contadina, cioè essenzialmente di tradizione orale e gestuale, riuscito a tramandare per secoli, da millenni attraverso le vie impervie della storia, una saggezza addirittura precristiana fatta di simboli rurali, di elementi magici, addirittura di matriarcato stregonesco.
Ve n'ho scritta una al giorno per tanti anni.
Voi mi dicevate scrivi, scrivi e io ho scritto per più di cinquant’anni. Una lettera al giorno per cinquant'anni. Solo una volta non vi scrissi, cara madre, e voi mi diceste perché non hai scritto? che io vi dissi che non avevo potuto scrivere per via dell'ospedale. Ché avevo avuto la disgrazia e non ho scritto. Mi diceste prima o poi me la scrivi questa lettera? Ché mica puoi saltarmi proprio un giorno nel mentre che mi hai sempre scritto tutti i giorni. Io vi dissi che sì, che prima o poi ve la scrivevo la lettera.
E mo', adesso ve la scrivo la lettera che manca. E' passato più di cinquanta anni e adesso ve la scrivo.
Fate conto che oggi è il 17 di marzo di quel 1949 che non vi ho scritto la lettera di quel giorno. E io riprendo il filo dal giorno prima. Dal 16 marzo.
Cara madre il 16 di marzo di quel '49 è il primo giorno che entro in fabbrica".
E’ il frutto di un anno di laboratori in giro per l’Italia per raccogliere storie, frammenti di racconti che ruotano attorno al vissuto fisico della fabbrica.
Un capolavoro, questo Fabbrica, presentato mesi fa anche a Pontedera, al Museo Piaggio, dove Celestini, per settimane, ha guidato un gruppo di giovani attori e registi attraverso la memoria, i luoghi, i protagonisti del “tempo del lavoro” in una delle fabbriche più importanti d’Italia. In precedenza era passato dalle cave di Santarcangelo e nelle miniere del Monte Amiata, dal marmo di Carrara, dalla pirite di Zavorrano, da Marghera, accumulando per due anni registrazioni e testimonianze di vecchi opera, per poi debuttare a Torino, il primo maggio scoro alla Biennale Giovani:
“Chi racconta il lavoro racconta qualcosa del proprio corpo –spiega lo stesso Celestini- Anche quando parla del cottimo collettivo, delle vertenze sindacali e dell’articolo 18 usa un immaginario che fa riferimento al corpo.
Come se per parlare di ciò che è accaduto si dovesse tradurre in un linguaggio i cui riferimenti sono la malattia e la salute, la bellezza e la deformità, la forza e la debolezza. Per il capoforno la fabbrica ha un centro e questo centro è l’altoforno. La fabbrica lavora per il buon funzionamento dell’altoforno e i gas dell’altoforno trasformati in energia elettrica mandano avanti lo stabilimento. L’antica fabbrica aveva bisogno di operai d’acciaio e i loro nomi erano Libero, Veraspiritanova, Guerriero.
L’età di mezzo ha conosciuto l’aristocrazia operaia con gli operai anarchici e comunisti che neanche il fascismo licenziava perché essi si rendevano indispensabili alla produzione di guerra. Ma l’età contemporanea ha bisogno di una fabbrica senza operai. Una fabbrica vuota dove gli unici operai che la abitano sono quelli che la fabbrica non riesce a cacciare via. I deformi, quelli che nella fabbrica hanno trovato la disgrazia. Quelli che hanno sposato la fabbrica lasciandole una parte del loro corpo, della loro storie e della loro identità”.
Uno spettacolo sulla storia del lavoro in Italia, scritto in giorni in cui le fabbriche chiudono e i nomi dei lavoratori allungano le liste di mobilità e cassa integrazione.
Ascanio Celestini, l’attore-autore amato dagli spettatori, il mese scorso ha incontrato Sergio Cofferati, Presidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, in una conversazione sul tema “La memoria del lavoro: identità, storia, cultura”. Perché, non ci tragga in inganno l’intonazione borgatara, Celstini è un fine lettore della storia patria, di cui propone in scena spunti di una personale rilettura critica, come quando con acutezza fa raccontare al suo operaio di come il Fascismo è stato fondato alla sede industriale di Milano, oppure di come il governo Mussolini vendesse armi alla Gran Bretagna sino alla vigilia della guerra.
Insignito del Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro 2001 che lo riconosce “capace di ascoltare e rielaborare testimonianze e di tradurle meravigliosamente in opere, per il suo valore di affabulatore, il rigore nella costruzione delle opere, la raffinata, musicale circolarità del raccontare”, recentemente è stato insignito del Premio Ubu Speciale 2002 “per la capacità di cantare attraverso la cronaca la storia d’oggi come un mito e viceversa”.
Ancora una volta, dopo racconti teatrali sugli ebrei del ghetto e sulla strage delle fosse Ardeatine (gli spettacoli"Radio Clandestina" e "Saccarina"), Celestini costruisce uno spettacolo di sola narrazione orale che incalza con il ritmo e con la visionarietà di immagini, come il personaggio della bella operaia Assunta, "volto scolpito di Madonna”, lavoratrice e ancora madre/amante/strega.
Lo spettacolo prende spunto da una ricerca di Alessandro Portelli sulle fabbriche di Terni, Biografia di una città, e si sviluppa intorno all'idea del luogo del lavoro.
"Il fatto è che riesco a raccontare delle storie solo quando sono finite e compiute" spiega Celestini. "La fabbrica in Italia praticamente non c'è più, siamo ormai in avanzata fase post industriale. E' durata forse appena sessant'anni e non c'è nessun libro che la racconti dal punto di vista degli operai, per questo ho avuto voglia di provare a farlo".
"La storia di questa generazione di operai durata fino alla seconda guerra mondiale mi ha colpito molto -dice- Così ho cercato di trasformare quei dati, quelle storie orali che avevo raccolto, in una possibile epica. Un'epica che non esiste ma che a me sembrava interessante costruire intorno ai racconti del lavoro".
Che è poi la stessa filosofia che Celestini incarna nella propria professione: “Lo spettatore deve sapere che sulla scena ci sono io, e non un personaggio. Altrimenti, crolla il rapporto tra due persone in carne e ossa, che è la forza del teatro.
Il teatro è parte del mondo, e la mia presenza in scena deve coincidere con quella che ho nel mondo”. L'attore non non nega se stesso, anzi accoglie gli spettatori nel foyer del teatro, con naturalezza, conquistandosi la propria sacralità solo in scena, con il proprio sudato lavoro, una chiamata, un istinto irrefrenabile, il bisogno di comunicare, perché, come fa dire al protagonista di Fabbrica: “quando un uomo ha visto una cosa così, mica poi può puoi starsi zitto”.