Brasile, paese di mille contraddizioni. Dove si passa dai condomini miliardari e blindati alle favelas, in cui un alba di Rio può trasformarsi nell’inferno dei meninhos de rua, dove dalla povertà del Norteste si passa all’odore di frittura al dendé di Bahia. Sincretismi cristiani e riti africani, macumba e candomblé, un samba triste allegro che si trasfonde nelle movenze di danza, nei ritmi solari delle sfilate carnevalesche ma anche in espressioni raffinate della bossa nova, tanto quanto nelle finte dei giocatori o nei versi strascicati e miagolanti dei suoi poeti cantanti.
Contrasti stridenti che sfrigolano in mille modi di vita, dove il rosario serve a rivolgere preghiere a deità marine e signori dell’arcobaleno. Difficile tradurre il tutto in una settimana di proiezioni serali. Ma la traversata proposta da questo XIX° appuntamento con il Festival del Film Etnomusicale, con sulla plancia di comando il direttore artistico Leonardo D’Amico, vale il viaggio; una scoperta, con molti inediti, dei “Suoni e visioni” carioca. Per quanto riguarda la musica succose incursioni nel meglio del cantautorato, dalla saudade di Chico Buarque agli svolazzi vocali di Caetano, senza dimenticare la divina Maria Bethania e il riottoso Carlinhos Brown; ma anche le imperiture lezioni di Jobim e Gilberto.
Per il visivo, a partire dalla bella mostra fotografica di Gigliola Vesentini (ospitata per tutta la durata del festival) non si scherza: rivisitazioni dei miti greci immersi nella neritudine dell’Orfeo, discutibile e stimolante, e pericolosi sconfinamenti in stregoneschi territori in compagnia del fotografo ed etnografo Pierre Verger, detto “Fatumbi”, che ha dedicato la sua esistenza ad individuare le infiltrazioni della cultura del Benin nella quotidianità bahiana. Ma anche con il gioiello della produzione Flog: un multivision della fotografa (di “Airone” e molte altre testate) Patrizia Giancotti, commentato dalla musica di Francesco De Melis dedicato a Yemanjà, dea lustrale della femminilità profonda ed amniotica; nonché il montaggio realizzato appositamente per il festival tratto dal copioso materiale girato da Tito Rosenberg tra gli Yanomami, tribù che vive ai confini del Venezuela.
Schegge inedite, chicchi di caffé non macinato che restituiscono un’immagine sonora del Brasile fuori dalle rotte consuete.
Vedere la musica e non solo ascoltarla.
L’approccio visivo, oltre che acustico, è indispensabile per conoscere in maniera più completa e approfondita quei fenomeni musicali (ma non solo) che appartengono alle culture di tradizione orale, sia eurofolkloriche che extraeuropee. Il fare musica è un comportamento umano, un fatto culturale che include, oltre alla produzione sonora, anche un insieme complesso di comportamenti cinesici e prossemici (gestualità, danza, mimica, ecc.) di pratiche rituali o ritualizzate, di un habitat naturale e di un contesto socio-culturale in cui si manifesta; fare musica è quindi un fenomeno che comporta tutto un insieme di elementi testuali (musicali) e contestuali (extra-musicali) che evidentemente non possono essere catturati da un semplice magnetofono (meno da un pentagramma o dalla parola scritta).
L’avvento della macchina da presa ha segnato una svolta negli studi etno-antropologici non meno dell’invenzione del fonografo Edison per la "musicologia comparata", denominata in seguito "etnomusicologia".
La trascrizione su pentagramma, di per sé insufficiente a descrivere l’espressione musicale di culture estranee a quella colta occidentale, si avvalse della registrazione sonora con diversi mezzi: dal rullo di cera al nastro magnetico fino all’odierno supporto digitale. La macchina da presa (dal 16mm portatile sincronizzata degli anni ‘50 all’8mm e Super 8 degli anni ‘60 e ‘70 fino alla videocamera degli anni‘80 e ‘90) ha conferito una nuova dimensione agli eventi musicali, la dimensione spazio-temporale in cui si svolge l‘avvenimento musicale, permettendo di fissare su pellicola prima (il film), su nastro magnetico poi (il video), tutti quegli elementi complementari (e non estranei) alla produzione sonora.
La fissazione del suono/immagine ha così offerto un decisivo contributo cognitivo alle discipline etno-antropologiche, conferendo ad esse maggior dignità scientifica alla luce di una (presunta e tuttora discussa) obiettività.
"L’etnomusicologia visiva - afferma Diego Carpitella nella prefazione al catalogo della III edizione della rassegna - è parte integrante del documento etnografico, anzi si può dire che ne sia implicita, in quanto la maggior parte della produzione cinematografica e video di carattere antropologico si basa su cerimonie e riti di culture di trasmissione e mentalità orali, entro cui la musica e il corpo hanno un ruolo preminente e vistoso".
L’etnomusicologia visiva, una disciplina di recente formazione, trova una sua collocazione tra l’etnomusicologia e l’antropologia visiva e offre una serie di applicazioni che vanno dalla ricerca alla didattica, proponendosi anche come cinema scientifico.
E’ il caso della Rassegna del Film Etnomusicale.
La Rassegna del Film Etnomusicale, nata nel 1983 come complemento del Festival Internazionale Musica dei Popoli, ha assunto in seguito una propria autonomia, diventando il primo festival di etnomusicologia visiva in Italia, patrocinato dal Comune di Firenze e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dipartimento dello Spettacolo). La Rassegna si propone di dare una visione panoramica e documentata scientificamente delle musiche tradizionali dei popoli nel mondo attraverso il supporto filmico ed audiovisivo, offrendo a un pubblico sempre più vasto, composto non solo da specialisti del settore ma anche da semplici appassionati, la possibilità di addentrarsi all’interno di mondi geograficamente e culturalmente lontani da quello in cui viviamo.
La musica è parte integrante della cultura e può rivelarsi uno strumento utile e talvolta necessario per conoscere credenze, valori e tradizioni di esperienze, culture e civiltà "diverse".
Il festival tende ad esaminare la natura cangiante di tradizioni musicali antiche ma ancora vive e presenti, seppur modificate dall’incessante processo di globalizzazione culturale.
Tra i registi, spesso anche ricercatori, le cui opere sono state presentate in queste tredici edizioni della Rassegna, vi sono, per non citare che i più noti, Jean Dominique Lajoux, Jean Rouch, Georges Luneau, Hugo Zemp, Margareth Mead, George Marshall, Gilbert Rouget, Alan Lomax, Les Blank, Izza Genini, Monica Flaherty Frassetto e Diego Carpitella.