FERRARA - “Possedere la debolezza di un uomo e la tranquillità di un Dio”. Questa la necessaria alchimia per irridere l’esistenza quotidiana con le sue miserie e i suoi affanni, in particolare il meccanismo dell'amore, del legame affettivo fra un uomo e una donna, che presuppone lo scontro con la ragione e la dignità personale, e le drammatiche, paradossali implicazioni che ne conseguono, rivissute a distanza di anni con appassionata ossessività.
Con allestimento registico improntato al realismo magico, Roberto Valerio torna al Teatro Comunale con il Giuoco delle parti, originale pièce di Luigi Pirandello - tratta da una sua novella -, dalla particolare atmosfera fiabesca ma a tinte forti, una sorta di Wunderkemmer del teatro e della mente, che solleva il sipario su quella varietà di “orride meraviglie” con cui l'esistenza è ancora in grado di sorprenderci. Parafrasando Cartesio e il sue sentire meccanicista, Pirandello, e Roberto Valerio, regalano al pubblico l'emozione di uno scombinato congegno temporale e mnemonico, (simboleggiato nell'olografia di un orologio che s'intravede fra le vetrate di scena), attraverso una vicenda paradossale, comica, crudele, tenera, che prende le mosse da una coppia separata nella Sicilia del 1918.
L'intuizione drammaturgica di Roberto Valerio, sta nell'indagare come il protagonista, Leone Gala (l'intramontabile Umberto Orsini), affronta il ricordo della grottesca vicenda che lo ha coinvolto molti anni prima, quando, separato dalla giovane moglie Silia (una splendida Alvia Reale), andava a trovarla ogni sera, per soli trenta minuti, senza però entrare nell'appartamento, ma parlando dalla strada con la cameriera.
Ad esasperare la giovane donna, è proprio questa assenza che si fa ossessiva presenza, e la mortifica nel gusto di essere donna. Irritata e desiderosa di disfarsi del marito, una sera, la moglie combina l'incontro fra lui e l'amante, Guido Venanzi (un convincente Michele Di Mauro), che si è scelta per tentare di sfuggire dall'esasperazione in cui la tiene la presenza-assenza del marito. Rimasti soli, i due uomini si confrontano in modo stranamente pacato, senza rancori apparenti, ma con Leone che non perde occasione per porre in sottile imbarazzo l'ingenuo Guido, spiegandogli le ragioni che lo hanno portato all'indifferenza verso la moglie.
In estrema sintesi, respinge l'amore per paura di averne a soffrire, ricorda il Collodi delle Macchiette (cfr. Un nome prosaico), dove candidamente fa ammettere a una donna di non aver mai amato perché “il medico me l'ha proibito”. Sulle ali del suo filosofeggiare, la pacatezza della scena assume tinte affascinanti nel momento in cui, attraverso le vetrate, s’intravede la moglie Silia, come rispecchiata nella coscienza dell’uomo, un espediente scenico che ricorda quelli pittorici del realista Alfredo Serri.
Esasperata dalla piega dell’incontro, Silia sfrutta il rocambolesco incontro con alcuni ubriachi, per dichiararsi offesa nella sua virtù, e chiedere che il marito sfidi a duello uno di loro, abilissimo spadaccino, mandandolo incontro a sicura morte. E Leone, con la medesima, pacata accondiscendenza con la quale ha acconsentito a separarsi dalla moglie, accetta sulle prime di battersi a duello.
Ma, esperto conoscitore del gioco della vita, lascia che a prendere le armi sia Guido, in linea con la parte di amante che si è scelta (o che gli è stata attribuita). Nella tranquillità di Leone, che spinge il rivale alla morte in duello, e ne fa quindi un assassino sul piano morale, è ravvisabile la raffinata, paradossale crudeltà di Max Aub, che, negli Omicidi esemplari, giustifica l'eliminazione degli individui intellettualmente e moralmente modesti. E modesto, Guido Venanzi lo è senza dubbio, caricatura drammaticamente attuale di tanta parte della moderna maschilità, che ha della virilità un'idea estremamente vaga, così come di cosa significhi amare e rispettare una donna.
La sua pochezza suscita il malcelato disprezzo di Silvia, che lo ha preso scelto amante non per reale convinzione, ma per vendetta contro il distaccato consorte. È, questo duello, l'idealizzazione del gran teatro dell'esistenza, dove le contraddizioni coesistono fianco a fianco senza scandalo di nessuno, e che Pirandello analizza con caustica curiosità.
Orsini, nella sua interpretazione, si spinge ben oltre il personaggio, e traccia una personalità raffinata e "refrattaria", che per delicatezza verso sé stesso rinuncia a vivere pienamente l'esistenza, e per questo è più vicino a Joseph Roth che a Baudelaire. Non c'è rassegnazione nelle sue parole, che Orsini riveste di pacatezza, bensì lucidità (o almeno, quella lucidità che Pirandello sempre attribuisce all'universo borghese), accompagnata da una gattopardesca astrazione dal quotidiano.
Un’interpretazione, la sua, leggera e intensa insieme, quando fra paterno e ironico filosofeggia con Venanzi, o nell’esaminare i dettagli del duello imminente. È lui, l’apparentemente debole “refrattario”, a dirigere, forse per caso, quel ballo dei morti, che ha scelto per sé la parte di “deus ex machina”, e spedisce Venanzi incontro al suo destino, e confina la moglieSilia in una sorta di isolamento. È lei il suo opposto, e non solo di genere, che Alvia Reale impersona con piglio passionale, e senso gattopardesco del melodramma, sensuale in sottoveste di raso nero o in abito di seta rossa, e severe in scuri abiti quasi vedovili, eppure mai doma, da vera femmina del Sud conscia della propria bellezza.
In mezzo, un grottesco Venanzi, ben interpretato da Michele Di Mauro, che porta sul palcoscenico l’ingenuità dell’uomo qualunque.
Ad arricchire il già sontuoso testo di Pirandello, l'allestimento ideate da Roberto Valerio, dove il passato si incastona nel presente di un Leone ormai anziano, e ospite di una casa d'igiene mentale, dove il suo filosofico aplomb è scambiato per eccentricità dal perosnale medico, e benevolmente tollerato. Fra le mura bianche della sua camera, rivive con la memoria la strana vicenda, e indirettamente riflette sul suo rapporto con la moglie molto più giovane di lui, dalla quale è ancora attratto e intimidito insieme.
Una situazione alla quale sfuggì con la separazione, una sorta di via di fuga a quel gioco scombinato che è l’esistenza. Il Leone di oggi, rivive quella vicenda di ieri, e per una sorta di metempsicosi temporale, si ritrova nel passato non com’era da giovane, bensì nel suo corpo invecchiato del presente. E con quello stesso corpo affronta adesso un qualcosa che non rimorso, bensì semplice constatazione di quanto è accaduto; e lo fa, appunto, con la debolezza di un uomo e la tranquillità di un Dio.
Sullo sfondo di questa singolare vicenda, una Sicilia ancestrale, sospesa fra l'Occidente e l'Oriente, intrisa di nenie arabeggianti e grandiose sinfonie barocche, che, come fughe musicali concettuali, scandiscono quel teatrale “giuoco delle parti” di cui le dinamiche continuano drammaticamente, e sardonicamente, a sfuggirci.
Alla chiusura del sipario, calorosi e meritati applausi per uno spettacolo che è un raffinato ritratto della bizzarria, della follia e della crudeltà dell’essere umano, non troppo diversa nel 2015 da quella che era nel 1918, quando la pièce è stata scritta.