È stato presentato alla Biblioteca Lazzeriniana di Prato il libro postumo di Raffaello Pecchioli "Via delle Bocche del Lupo, 73 (sinfonia in Si minore per archi ed orchestra)", un romanzo la cui trama si dipana in un avvincente intreccio epistolare e che contiene molteplici spunti di riflessione, dalla dimensione politica all’introspezione psicologica dei tre protagonisti Ulisse, Carlo e Antonio “tutti figli del demonio”.
Davanti a un foltissimo pubblico, l’assessore alla Cultura Simone Mangani, gli editori Alessandro e Monica Attucci, la figlia Sara Pecchioli e Riccardo Mazzoni hanno approfondito le tematiche di un libro originale anche dal punto di vista del lessico, che non di rado trasfonde la prosa in poesia, e che alterna il sarcasmo di pagine segnate dal grottesco rapporto tra la burocrazia mediocre ma onnipotente e le sue bistrattate vittime al lirismo ispirato dalla magia dell’Africa, rifugio salvifico delle anime perse.
Approfondimenti
Tutto si svolge nell’89, prima della caduta del Muro di Berlino, e gli attori principali sono tre quarantenni di Borgo al Cornio - l’antico nome di Prato -dal cui serrato scambio di lettere traspare la delusione per le illusioni svanite degli anni giovanili, quando i sogni rivoluzionari parevano un orizzonte reale e si sono invece progressivamente infranti nella mediocre realtà del contesto, fatto di bassa politica, di ottuse gerarchie e dell’ingiustizia assurta a metodo.
Il romanzo, in definitiva, è l’amara apologia della sconfitta di una generazione di romantici ribelli, nemici ontologici dell’Amerika con la Kappa, sotto la cui “ala distruttrice siamo nati e nutriti, un’ala di morte e di disprezzo per le culture dei popoli”, ma profondamente delusi anche dagli esiti tragici e illusori della Rivoluzione d’Ottobre della Grande Madre Russia.Ma il pessimismo cosmico di Pecchioli va ben oltre, e si interroga sulla “tragicità del vivere, del nostro andare senza un perché verso una meta già scritta a nostra insaputa”.
Con un mondo piccolo piccolo dominato dagli oscuri funzionari di un’Azienda dell’Acqua e del Gas che possono imperversare impunemente nelle vite altrui, “quella categoria di persone che non muore mai, nel senso che rappresenta l’ossatura di tutti i peggiori mondi possibili, che possono esser mantenuti tali solo grazie all’esistenza di uomini come lui stesso e come il Compagno Javert”, un capocronista che incarna nel suo infimo cabotaggio l’espressione del potere.
La storia dei protagonisti è dunque l’ammissione di una condanna a vivere in una sorta di mondo di sotto: “Ciò mi fa capire che per alcuni – e noi tra questi – poco conta la voglia e la capacità di fare, perché – con la nascita – ci è stato impresso sulla pelle il marchio della sconfitta”.Il libro è in larga parte autobiografico: Pecchioli faceva parte della generazione cresciuta nell’ideologia comunista, vissuta come strumento di riscatto sociale, ma era intimamente eretico, perché il partito era una gabbia che gli stava stretta.
Lui era un bardo solitario, un anarchico che combatteva contro qualsiasi potere costituito, quella fitta rete oppressiva, da quella dei massimi sistemi fino al microcosmo amministrativo che aveva già beffardamente descritto in un altro piccolo capolavoro: Gnomiade. Il suo riferimento ideale non era Lenin, era Majakowskij, il rivoluzionario suicida, la stessa fine che sceglieranno due dei tre ribelli: sapeva a memoria La nuvola in calzoni, il poemetto in cui il dolore per un grande amore non ricambiato diventa collettivo, e lacera un’umanità di reietti, di infelici, di umiliati e offesi che la Rivoluzione non aveva saputo riscattare.
Pecchioli vedeva in Majakovskij il simbolo dell’accanimento e della persecuzione dell’intellettuale non supinamente allineato al regime.
Il libro è una summa di suggestioni, in cui la figura femminile diventa spesso dominante: “La donna è un grandioso universo entro al quale tutto avviene, e dove niente avviene per caso”. Ma fidarsi delle donne è da sciocchi, fa dire in una lettera.
E poi traspare un richiamo a Malaparte, l’altra bussola culturale di Pecchioli, che dalla tomba di Spazzavento sputa nella gola del Bisenzio, proprio come un protagonista del romanzo dalla Passerella, crocevia di destini e di pensieri profondi: “Potevano raccontarsi con finta serietà le loro impressioni di vecchi bambini che, chini sulle braccia sulla spalletta di un ponte sul Bisenzio, se ne stanno a vedere la vita che passa sotto di loro, con i suoi giorni di barchette di carta, dove tragedie e drammi, speranze e illusioni, se ne vanno via in silenzio, verso il grande mare del nulla!”.
Attucci nella sua strepitosa introduzione sostiene che il libro ricorda la struttura narrativa delle Ultime lettere di Iacopo Ortis di Foscolo e del Nome della rosa di Eco. Questo dà la dimensione esatta di un romanzo che è davvero uno squarcio di grande letteratura.