Il Discorso del Re, in scena al Teatro Politeama Pratese sabato 11 e domenica 12 gennaio, è ambientato in una Londra surreale, a cavallo tra gli anni 20 e 30 ed è centrato sulle vicende di Albert, secondogenito balbuziente del Re Giorgio V. Dopo la morte del padre, il timido e complessato duca di York non sarebbe dovuto salire al trono d’Inghilterra. Il primogenito era infatti Edoardo, che divenne sì re ma che, per amore di Wallis Simpson, abdicò neppure un anno dopo. A Bertie, o meglio ad Albert Frederick Arthur George Windsor, toccò il peso della corona diventando sovrano con il nome di Giorgio VI. Un uomo atipico che fu re molto amato dal popolo, legato da vero amore alla moglie: la volitiva Elisabetta Bowes-Lyon, e che si portava appresso un fardello di costrizioni infantili e un bisogno di affetto difficili da trovare nell’anaffettiva coppia di genitori regali.
Un’insicurezza che si esprimeva attraverso una balbuzie invalidante e impossibile da gestire nei numerosi e imbarazzanti discorsi pubblici cui era tenuto. In più, Giorgio VI si trovava a essere la voce del e per il popolo britannico in un momento difficile della storia, alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Ma che voce poteva essere o quale guida per il popolo? Così venne portato dalla moglie in visita dal logopedista australiano Lionel Logue, dai metodi anticonformisti, capace di sondare le anime e di medicarle, attore mancato per eccessiva enfasi, insegnò al Duca di York come superare l’incubo di parlare in pubblico.
Logue pretese subito il “tu” dal reale e sottopose il futuro re ad una cura che attingendo al laboratorio teatrale quanto alla seduta psicanalitica gli permise di salire sul trono. Una commedia umana, sempre in perfetto equilibrio tra toni drammatici e leggerezze, ricca di ironia ma soffusa di malinconia, a tratti molto commovente, ma capace anche di far ridere. Non di risate grasse o prevedibili, ma di risate che nascono dal cervello e si trasmettono al cuore. Così come le lacrime non nascono da un intento ricattatorio ma dall’empatia, da una condivisione sentimentale di difficoltà umane. Il Discorso del Re parte dai fatti storici per addentrarsi in un dramma personale, senza abbandonare mai la Storia, che non è fondale sottofondo ma è presenza imprescindibile di ogni istante della commedia al fianco dei protagonisti. Il film omonimo Il discorso del re (The King's Speech), ormai famoso in tutto il mondo per via dell'omonimo film del 2010 diretto da Tom Hooper e interpretato fra gli altri da Colin Firth, Geoffrey Rush e Helena Bonham Carter, ha vinto 4 premi Oscar (su 12 candidature): miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura originale. In origine nasce però come testo teatrale - sempre scritto da David Seidler, autore anche della sceneggiatura del film - Il Discorso del Re sfrutta l’aspetto psicofisico della disarticolazione verbale per raccontare il rapporto tra il Paese colono e l’Impero per cui sacrifica i propri figli in guerra.
E dimostra come aneddoti nascosti nelle pieghe della Storia possano elevarsi alla potenza dell’epica, se narrati con perizia e ritmo. Il merito è dello sceneggiatore David Seidler che nella sua vita ha sofferto di balbuzie.