FIRENZE - Torna alla Pergola il grande teatro d’autore, con l’amara ironia gattopardesca de Le voci dentro, complessa pièce di Eduardo De Filippo che indaga la cattiva coscienza di un’Italia appena uscita dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Toni e Peppe Servillo si calano in un’amara napoletanità interpretando rispettivamente Alberto e Carlo Saporito, fratelli che per sbarcare il lunario noleggiano attrezzature per gli spettacoli di strada, tanto cari al popolo napoletano che fa della strada una sorta di seconda casa.
Loro dirimpettaia nel condominio, la numerosa famiglia Cimmaruta, che vive di espedienti, fra i quali l’attività di cartomante di Matilde. Una tipica famiglia napoletana, ma anche italiana in senso più generale, alle prese con la ricostruzione del Dopoguerra, e le quotidiane difficoltà di sbarcare il lunario. Persone all’apparenza normali, classici caratteri del teatro di De Filippo. Ma il gusto per la commedia cede a considerazioni più amare, legate alla trasformazione morale della società italiana post-1945, esecrata dall’odio, dal sospetto, dalla fame.
Come ebbe a scrivere Curzio Malaparte nel celebre romanzo La pelle, si assisteva al degradante spettacolo di un Paese che ha ceduto per paura, e adesso è ossessionato da diffidenza dell’altro, congetture, fantasmi, “voci interiori”, e fraintende anche quella fantasia, quella dimensione onirica che invece conferiva poesia alla razionalità umana. Ed è proprio da un sogno di Alberto Saporito, relativo all’assassinio di tale Aniello Amitrano, che la commedia prende una piega drammatica in senso quasi kafkiano; Saporito accusa i vicini di casa, sulla base di presunti documenti e indizi vari, che vengono arrestati in casa propria, nel bel mezzo di un’apparente amichevole conversazione con l’accusatore e il di lui fratello Carlo.
In questa prima parte si assiste a uno spaccato di vita quotidiana a Napoli, con i suoi personaggi un po’ queruli ma comunque sempre in grado di cavarsela, alle prese con i piccoli pettegolezzi, le maldicenze, l’ironia, di un popolo fondamentalmente buono, quale è quello napoletano. Ma dalle parole di Saporito, che in seguito egli stesso smentirà, comprendendo che siano basate su impressioni sognate, nasceranno sospetti e delazioni. Lungi dal provare rancore verso il loro accusatore, i Cimmaruta tornano da lui, ognuno all’insaputa dell’altro, per accusare questo o quel familiare.
Lo stesso Saporito rischia adesso l’arresto per falsa dichiarazione, ma a complicare la vicenda, il fatto che Aniello Amitrano risulta effettivamente scomparso. A ciò, si aggiungono le macchinazioni di Carlo Saporito, che nell’eventualità che il fratello sia arrestato, cerca di farsi intestare i beni di famiglia. Si crea così un guazzabuglio di voci, parole, rancori, grida, inesattezze. a parola, da nobile mezzo d’espressione razionale dell’uomo, si è trasformata in strumento della malafede, divulgatrice di caos, invidie, accuse, malvagità.
Per rifuggire questa poco dignitosa situazione, Zi’ Nicola, vicino di casa dei fratelli Saporito, si è da anni rifugiato in un silenzio assoluto, volontariamente allontanatosi dall’ormai sorda folla; personaggio che De Filippo immagina quale coscienza pensante di una società in crisi, che ha smarrita la buona fede, l’unica che giustifichi anche le azioni meno virtuose. L’accusa di Saporito, è giustificata perché mossa da un sogno, quel regno della fantasia che l’umanità ha smesso di frequentare, interessata soltanto alla materialità del quotidiano.
Terribili, agli occhi di Saporito, sono le delazioni razionalmente riferite dai Cimmaruta, che si accusano a vicenda, rivelando paranoia e paura dell’altro. L’acutezza di De Filippo, sta nell’italianizzare la strana vicenda, che si conclude con il ritrovamento di Amitrano, e la caduta delle accuse. Una soluzione che però lascia aperti molti interrogativi, ai quali dà paradossale voce il silenzio che chiude lo spettacolo, e che i due fratelli, rimasti soli, si scambiano forse con astio, forse con smarrimento, forse con indifferenza.
Di qualunque cosa si tratti, il fatalismo meridionale aiuta ad accettarlo. E a gettare un’ulteriore luce malinconica, la morte dell’enigmatico Zi’ Nicola, annunciata da un fuoco d’artificio verde, suo unico mezzo per comunicare, ma perfettamente compreso da Alberto Saporito, il solo che sembra condividere le angosciose considerazioni del vicino. Sul palco, l’amara ironia è magistralmente interpretata dai Servillo, che alternando lingua italiana e dialetto napoletano mantengono la freschezza di un testo estremamente attuale, per la riflessione sulla lontananza fra individui; a integrare la recitazione, la mimica del corpo e degli sguardi, inframezzati da silenzi carichi di gravezza.
A dare ulteriore colore allo spettacolo - che ha meritati i calorosi applausi del pubblico -, la prova di tutto il cast, perfettamente calato nella psicologia di un’italianità in crisi. Uno spettacolo che conferma l’attualità del teatro di De Filippo, che ha saputo leggere nelle pieghe più profonde di un popolo che stava cambiando modo di essere. Niccolò Lucarelli