«A sei mesi dall'alluvione dei necessari interventi strutturali esistono solo i progetti, ed anche i pochi lavori in corso procedono a rilento per problemi burocratici. Non possiamo permetterci che queste lungaggini preparino un nuovo disastro al prossimo nubifragio,». Non usa mezzi termini Maria Teresa Fagioli, presidente dell'Ordine dei Geologi della Toscana per descrivere lo stato dei territori devastati dell'alluvione che il 25 e 26 ottobre 2011 sconvolse la Lunigiana e la Val di Vara. Lo ha fatto a Mulazzo (Ms) durante la giornata che gli Ordini dei Geologi della Toscana e della Liguria hanno voluto dedicare al territorio e che ha visto la partecipazione di geologi professionisti venuti da tutta Italia a toccare con mano quanto i quasi 400 millimentri di pioggia in meno di 12 ore hanno provocato ad Arpiola, Montereggio, Castagnetoli, sul torrente Mangiola e a Mulazzo, ma anche ad Aulla, Brugnato lungo il torrente Cecchignola e Mangia nel Comune di Sesta Godano.
«Eppure la Toscana ha una normativa avanzata, ma qualcosa non ha comunque funzionato, perché certi errori della programmazione passata avrebbero dovuto e potuto esser corretti prima che uccidessero», continuato Maria Teresa Fagioli. Mulazzo paese è uno dei paesi simbolo dell'alluvione, ancora mal raggiungibile per il crollo del ponte che lo collega alla provinciale e con una piazza portata via dal fiume di acqua e fango. «Manca la cultura del territorio, non c'è programmazione a lungo termine.
Deve cambiare la visione della gestione dell’ambiente fisico. Occorre investire in prevenzione e non inseguire le emergenze. Un’emergenza, morti a parte, costa 10 volte la prevenzione», ha commentato Giovanni Scottoni, presidente dell'Ordine dei Geologi della Liguria. A salire sulle stradine della Lunigiana che portano a Mulazzo o a Montereggio ci si rende conto di quanto devastante sia stata la furia dell'acqua. Ma anche di quanto certe scelte dell'uomo siano state sbagliate. «La Protezione Civile Toscana – continua Fagioli – ha funzionato molto bene, ma quello che serve è la prevenzione civile.
Quanto successo ha messo in luce l’ignoranza e la superficialità, per essere benevoli, di chi ha progettato l’evoluzione urbanistica di questo territorio, ma possiamo trarre una lezione positiva dal disastro: la programmazione territoriale non si può fare a compartimenti stagni, le aree urbanizzate sopravvivono se il territorio che le circonda, specie se territorio montano, è ben curato. Non ha senso l’occhiuta attenzione posta alle verifiche della conformità edilizia di una tettoia o di una finestra se il versante che sovrasta il paese minaccia di venir giù per incuria.
La cultura della “Prevenzione Civile” significa aver il coraggio di dire no alle scelte comode, ai confini tracciati con squadra e compasso o col manuale Cencelli. L’ambiente fisico non concerta, non scende a patti: o lo si capisce e rispetta, oppure uccide». Occorre far nascere un modo diverso di tutela attraverso quella che la cultura del territorio. «La cultura del territorio deve partire dai cittadini, le cui segnalazioni non sono un fastidio per i loro amministratori. Sono un segnale di allarme, soprattutto quando sono i cittadini a rischiare», commenta Francesco Ceccarelli, massese, geologo consigliere dell'Ordine toscano, organizzatore della giornata in Lunigiana.
«E perché gli allarmi siano efficaci, perché gli abitanti non siano un armento da salvare, ma una popolazione che cura la propria incolumità, ci vuole cultura. Quando qualcuno mi chiede che professione sia quella di geologo, mi arrabbio, e se è un giovane a chiederlo, ho paura, paura per lui o per lei, vuol dire che c'è un grosso buco culturale. Abbiamo un territorio tra i più ammirati, ce ne deriva il dovere di averne cura, perché curare il territorio vuol dire anche amarne la popolazione».