Firenze - E' per dar voce a “La Sirena”, un reading tra narrativa e teatro tratto dal racconto Lighea di Tomasi di Lampedusa, che LUCA ZINGARETTI torna in Toscana e arriva al Teatro della Pergola di Firenze (dal 1° al 6 marzo) e prosegue poi verso Sinalunga (8 marzo), Monsummano (9 marzo) e Lamporecchio (10 marzo). Poi lo rivedremo a maggio, a Siena, alla Festa del Documentario “Hai Visto Mai?”, che dirige dal 2006.La Sirena, di cui Luca Zingaretti non è solo interprete ma anche curatore della regia e dell’adattamento drammaturgico, è uno spettacolo tra la carnalità del Presente e la spiritualità dell'Antichità su cui emerge la ricchezza della poesia della terra siciliana da dove sembra palpitare quella melensa e liquorosa stasi del vivere che connota gran parte dei paesaggi e degli uomini.
Pubblicato postumo nel 1961, questo racconto affascina sotto innumerevoli aspetti. Colpiscono le raffinate scelte semantiche che spaziano dall’italiano forbito al dialetto popolano, la precisa e attenta costruzione della sintassi,le scrupolose descrizioni di luoghi, personaggi, eventi, ma soprattutto sensazioni. Dalle pagine del racconto ambientato nella fredda Torino emerge con vigore la calda Sicilia: l’odore della salsedine, il sapore dei ricci di mare, il profumo di rosmarino sui Nèbrodi, le raffiche di profumo degli agrumeti.
Di tutte queste sensazioni si arricchisce lo spettacolo La Sirena, accompagnato dalle musiche del maestro Germano Mazzocchetti. Siamo a Torino, nel tardo autunno del 1938. In un caffè due uomini, ambedue siciliani, si incontrano. Paolo Corbèra è nato a Palermo, giovane laureato in Giurisprudenza, lavora come redattore de “La Stampa”. Rosario La Ciura è nato ad Aci Castello, ha settantacinque anni, ed oltre ad essere senatore, è il più illustre ellenista del tempo, autore di una stimata opera di alta erudizione e di viva poesia.
Il primo risiede in un modesto alloggio di via Peyron e, deluso da avventure amorose di poco valore, si trova in piena crisi di misantropia. Il secondo vive in un vecchio palazzo malandato di via Bertola ed è infagottato in un cappotto vecchio con colletto di un astrakan spelacchiato, legge senza tregua riviste straniere, fuma sigari toscani e sputa spesso. I due sconosciuti si incontrano in un caffé di via Po (“na specie di Ade” o “un adattissimo Limbo”). Tra riflessioni erudite, dialoghi sagaci, battute cinicamente ironiche, i due trascorrono il tempo conversando di letteratura, di antichità, di vecchie e nuove abitudini di vita.
In un immaginario viaggio, geografico e temporale tra il Nord e il Sud, emerge un mondo costruito sulla passione e l'estasi. Alle iniziali avventure del giovane con “sgualdrinelle ammalate e squallide (...), di un’eleganza fatta di cianfrusaglie e di moinette apprese al cinema, a pesca di bigliettucci di banca untuosi nelle tasche dell'amante” si sostituisce, in modo tanto sinuoso quanto dirompente, l'amore del vecchio per una creatura dal sorriso che esprime “bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia”, dal “profumo mai sentito, un odore magico di mare”, dalla voce che pare un canto.