Pedro Almodóvar ritorna a Cannes con la sua musa Penélope Cruz per un film molto personale, un melodramma intimo apparentemente sotto le righe: Los abrazos rotos. Nato da un’idea sviluppata dal regista spagnolo durante un periodo di forti emicranie che lo ha costretto per due anni a prendere ogni giorno un cocktail di analgesici per attenuare un dolore che quando diventava insopportabile lo costringeva a stare al buio, il film è una storia di cinema nel cinema costruita come un gioco di scatole cinesi che si dipana in due piani temporali differenti: una storia che si svolge al presente e una di 14 anni prima. La notizia appresa da un giornale della morte del finanziere Ernesto Martel (Josè Luis Gomez) diventa infatti un proustiano varco sul passato per l’ex regista Mateo Blanco (Lluìs Homar) divenuto cieco a causa di un incidente automobilistico in cui ha perso la vita il suo grande amore Lena (Penélope Cruz).
Da allora per poter vivere ha cancellato quell’esistenza assumendo lo pseudonimo di Harry Caine (allude al James Cain di Il postino suona sempre due volte, ma letto tutto di fila suona come «hurricane», uragano) e scrivendo solo sceneggiature, assistito dalla fedele direttrice di produzione Judit (Blanca Portillo) e da suo figlio Diego. Attraverso un intricato flashback il film ricostruisce le storie di gelosia, amore e ossessione che uniscono il presente e il passato dei personaggi.
Il protagonista ricostruisce frammento dopo frammento il tormentato e passionale rapporto con Lena, amante di Ernesto che, per assecondare le sue velleità di attrice e per non perderla, diventa finanziatore e produttore della sua commedia “Chicas y muletas” (“Ragazze e valigie”). Ma come da copione, la ragazza e il regista s'innamorano. Ossessionato dalla gelosia e folle d’amore per Lena, l'uomo d’affari incarica il figlio di fare un making off integrale del film per spiarli, con conseguenze disastrose.
Dopo 14 anni quest’ultimo riappare da Mateo per completare l’opera… Demolito da una critica spagnola severissima che gli rimprovera la perdita dell'istintiva e irrefrenabile vitalità degli inizi (la chiassosa e variopinta movida anti e postfranchista) e snobbato da Cannes, Gli abbracci spezzati può effettivamente essere considerato un film “minore”. Ma intendiamoci, Almodovar è sempre un magnifico regista e soprattutto uno straordinario sceneggiatore, solo che in questo film (come del resto fa il suo protagonista), sacrifica il primo aspetto a vantaggio del secondo. Incantatore e indiscusso maestro nel raccontare, Almodovar utilizza una sofisticata e laboriosa struttura a incastri degna di un Cervantes, ma il ricorso a un’eleganza e formalità della messinscena, alla confusa commistione di generi (melodramma, noir, commedia, ecc.), alla rigorosa ricercatezza visiva e alle infinite citazioni cinematografiche (compresa quella autoreferenziale del film che sta girando Mateo, liberamente ispirato al suo Donne sull’orlo di una crisi di nervi) finisce col rendere più fredda e meno coinvolgente la sua regia.
Non per questo però si sente odore di “intellettualismo”, la sincerità del regista passa, è assoluta e lacerante ma, come succede quando ci accostiamo ad una passione o ad un amore troppo grandi, Almodovar si perde nella fascinazione del mezzo: «è la prima volta che faccio una dichiarazione d'amore così esplicita al cinema, non con una sequenza specifica ma con tutto un film» dice «ho voluto raccontare il mio rapporto con il cinema più come spettatore che come regista».
Mai come stavolta infatti Pedro è inebriato dal culto per i registi che l'hanno nutrito: Viaggio in Italia di Rossellini (da cui prende ispirazione per il titolo), la voce di Jeanne Moreau in Ascensore per il patibolo che aiuta Mateo a superare un momento di crisi, l'inquietante Ernesto Junior paragonato all'ambiguo assassino di Peeping Tom, i travestimenti della Cruz che il regista si diverte, non senza malinconia, a sovrapporre ai volti Audrey Hepburn e Marilyn, e le citazioni sparse un po’ ovunque di Louis Malle, Tonino Guerra, Fritz Lang, Visconti, Vertigo di Hitchcock e perfino Via col vento, quando Penélope Cruz cade dalle scale, dice lo stesso regista: «vi ho rivisto Via col vento, Psycho, Peccato mortale e Il Padrino Parte terza».
Pur con tutte le sue imperfezioni, Gli abbracci spezzati è un intimo, vibrante e tenero omaggio a tutti gli elementi del cinema, di oggi e di una volta, al make up, alla scenografia, alla moviola, quando toccare la pellicola era come toccare le immagini e i suoni («col vecchio montaggio le immagini si potevano toccare, oggi si è persa la tattilità degli elementi che formano una pellicola») al doppiaggio (le scene in cui il magnate assume una “lettrice di labbra”, la sempre bravissima Lola Duenas, per capire cosa si dicono davvero Lena e Mateo sul set, è un momento strepitoso). Ma la “materia” è tanta, ed è come se ci fosse troppo di tutto, d’immagini e di parole, di trame e colpi di scena, di riferimenti e suggestioni.
Cosi Almodovar si ripiega su stesso e riflette sulle immagini, sullo sguardo, sul cinema e finanche sui meccanismi del potere nel mondo del cinema che s’illude di manovrare contesto e comprimari: « il magnate, che diventa produttore per soddisfare la voglia della moglie di fare l'attrice è il prototipo della cultura degli affari loschi. La mia esperienza con gli uomini ricchi e potenti che si mettono a fare cinema è stata infelice». Messo veramente a nudo il cinema di Almodovar parla sempre della stessa insanabile ferita: l’amore che la vita impedisce irreparabilmente.
Dunque il melodramma, che diventa la misura del mondo, e il cinema come luogo in cui si ricrea tutta la complessità della vita (ciascuno ha segreti inconfessabili) e di questo dolore (si pensi a La mala educacion per quanto il cinema possa far male sul serio). La società con cui Pedro e suo fratello producono i film si chiama “El Desio”, una specie di dichiarazione d’intenti, un’indicazione programmatica visto che tutti i suoi film parlano appunto di passione, amore, rabbia, gelosia, vendetta, ossessione, tradimento, ecc.
ma, paradossalmente (dal momento che si parla soprattutto di un amor fou), in questo film manca proprio quel modo di girare “di pancia” che lo ha reso celebre e che ha commosso le platee di tutto il mondo. Gli abbracci spezzati è un film quasi completamente cerebrale, un «dramma asciutto», precisa lui, «perchè qui i personaggi hanno pianto tutte le loro lacrime prima ancora che cominciasse». Come fosse un “Frammento di un discorso amoroso” il film utilizza il linguaggio descrittivo dell’emotività più che l’emotività stessa.
Emblematica mi sembra a tal riguardo la scena in cui Mateo e Lena guardano in tv Viaggio in Italia: la Bergman e Sanders visitano uno scavo di Pompei e sono testimoni del ritrovamento dei corpi di un uomo e di una donna stretti nell'eterno abbraccio in cui la lava li ha sepolti, così i due amanti decidono di fotografarsi nello stesso modo, fusi in un eterno abbraccio. Questo è Gli abbracci spezzati: la storia di una fotografia scattata e poi ridotta in mille pezzi, una fotografia che voleva fissare disperatamente l’attimo e rendere l’amore immortale, «ma è una chimera e un arbitrio.
Quasi un’eresia. La foto è un oggetto fragile. Si rompe, si deteriora, perde lucentezza. Ci sono respiri che non si possono rendere eterni » dice il regista, e viene in mente “La camera chiara” di Roland Barthes: “ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente. La fotografia è l’immagine che produce la Morte volendo conservare la Vita”. Per questo fa rimontare a Mateo il suo film vituperato, come se volesse spingerlo a riattaccare quei pezzi, a rianimarli, a rielaborarli (non a caso) attraverso il mezzo cinematografico, per tornare alla vita, come dirà nel finale: “l’importante è finire di girare un film, anche se poi non viene visto.” Laura Iannotta