Nelle colonie africane dell'Italia i film che venivano proiettati (inizialmente tramite l'autocinema "Luce" gestito dall'Ufficio Studi e Propaganda) costituivano un'immagine vivente della Patria lontana, una luminosa prova della sua reale potenza di nazione e della risurrezione del suo popolo e del suo destino sotto il Regime Fascista. Tra le righe degli scritti sulle potenzialità di diffusione del cinema nelle colonie è leggibile, fin dai primi anni Trenta, la radicata convinzione che le popolazioni indigene debbano essere considerate un pubblico a parte, da assoggettare a un'azione di acculturazione da esplicare con documentari celebrativi della forza economica e militare della potenza colonizzatrice.
Dopo la proclamazione dell'Impero, quando le colonie dell'Africa Orientale Italiana cominciano a essere considerate un mercato suscettibile di interessanti sviluppi, la netta separazione tra i due pubblici di consumatori diviene un argomento a sostegno dei provvedimenti di segregazione varati dal governo fascista che interessano anche la costruzione dei cinema. La logica della separazione dei pubblici, "in omaggio all'igiene e al prestigio", mette definitivamente in crisi il modello dei cinema misti e impone la linea dell'apartheid.
Per scoraggiare ogni promiscuità, la legge n. 1004 del 29 giugno 1939 (Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell'Africa italiana) imponeva al "cittadino italiano metropolitano di razza ariana" il divieto d'accesso alle sale destinate esclusivamente ai nativi e stabiliva, all'articolo 12, quanto segue: "Il cittadino che, nei territori dell'Africa Italiana, frequenti abitualmente luoghi aperti al pubblico riservati ai nativi è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a lire duemila".
È quanto espone Ezio Godoli, professore di Storia dell'architettura all'Università di Firenze, nell'articolo L'architettura dei cinema nelle colonie italiane pubblicato nel secondo fascicolo di «Opus Incertum».
Il nuovo semestrale del Dipartimento di storia dell'architettura e della città dell'Università di Firenze, edito dalla casa editrice fiorentina Polistampa a partire dallo scorso luglio, è l'unico periodico scientifico in Toscana a occuparsi esclusivamente di storia dell'architettura, dedicando ogni suo numero a un argomento monografico, in questo caso "l'architettura italiana dei cinema" e in particolare il Kursaal Teatro Eden di Pistoia (Mauro Cozzi), il Rex, lo Stadio, il Capitol e altri cinema fiorentini di Nello Baroni (Gianluca Belli, Claudio Cordoni), l'Odeon di Virgilio Marchi a Livorno (Milva Giacomelli), i cinematografi di Alessandro Rimini nella Milano tra le due guerre (Ornella Selvafolta), quelli di Mario Cavallè (Paola Ricco), le sale romane degli anni '20 e '30 (Clementina Barucci), il cinema-teatro Metropolitan a Napoli (Andrea Maglio), il modernismo nei cinematografi di Palermo (Eliana Mauro) e la produzione di Salvatore Caronia Roberti in Sicilia (Ettore Sessa).
La serietà degli articoli, la ricercatezza della veste grafica, il minimalismo dei caratteri e dell'impaginazione hanno già valso a «Opus incertum» numerosi autorevoli elogi, facendo della neonata rivista già un punto di riferimento nel settore.
Irene Gherardotti