A conclusione della rassegna AURORADISERA, giovedì 30 marzo alle ore 21.15 presso il Teatro Aurora di Scandicci,sarà Moni Ovadia, grande uomo di teatro e di immensa cultura, ricercatore ed abile, poliedrico interprete di una tradizione antica quale l’identità culturale Yddish, a dar voce, a “LA BOTTIGLIA VUOTA”, un monologo sul mondo khassidico articolato attraverso il racconto, in chiave semi-seria, di aneddoti, storielle e canzoni tratte dal patrimonio culturale dell'ebraismo orientale.
Eccezionalmente il racconto sarà contrappuntato dallo stesso Ovadia che si accompagnerà da solo alla chitarra e da un quartetto di musicisti di diversa provenienza che esegue musiche di contaminazione zingara, slava e kletzmer.
“Abracadabra” è una parola di origine aramaica che significa “mentre parlo creo”. Creare con le parole è quello che fa Moni Ovadia durante lo spettacolo “La bottiglia vuota” già da qualche anno in tournèe in ogni angolo d’Italia, un monologo divertente e ironico che fa comprendere lo spirito più acuto dell'umorismo ebraico attraverso aneddoti, racconti e canzoni tratte dal patrimonio culturale dell'ebraismo orientale.
Moni Ovadia traccia la storia e le caratteristiche dei "khassidim", ebrei ortodossi di ispirazione mistica che hanno introdotto nel pensiero e nella prassi ebraica una sorta di profondità/levità nuova fino ad allora, vagamente astratta e a volte apparentemente non-sense, pur mantenendosi nel solco di una saggezza profondissima. Il valore della parola e l’invito alla coscienza e alla responsabilità che l’individuo deve assumersi nel pronunciarla si intreccia con altri temi affascinanti: l’importanza della traduzione nella comprensione dei testi, il concetto di straniero, l’idea di identità, il nazionalismo, gli aspetti odierni della convivenza tra ebrei e cristiani e gli elementi di contatto e di vicinanza tra le due culture.
I racconti, sempre sospesi tra il paradosso e la rivelazione, servono a tracciare una visione del mondo filosofica più che politica, e per delineare il mito dell’uomo errante e straniero come una dimensione esistenziale più che geografica. A far da contrappunto al narrare dell’“cantore errante”, sul palco si inserisce un quartetto di musicisti gitani che, autentici interpreti di musiche della loro cultura, eseguono composizioni di contaminazione zingara, slava e kletzmer. Un originale spettacolo/concerto in cui la grande capacità affabulatoria di Moni Ovadia racconta con levità le piccole e grandi vicende di un popolo all'insegna della tolleranza e dell'integrazione, "uno spettacolo come viaggio tra incontri e scoperte, a volte inattesi, un ampio divagare colto e leggero, alternando raffinate interpretazioni di testi della tradizione a brani musicali: perché importate è la vita, saper ridere, con tanta ironia e autoironia, rielaborando così, per quanto possibile, i dolori della storia, le sofferenze del presente".