(Firenze, 28 febbraio ) Dal 2 al 4 marzo al Teatro Puccini Alessandro Benvenuti porta in scena “I Costruttori di Imperi” di Boris Vian. Pubblichiamo di seguito la premessa di Alessandro Benvenuti: “Il desiderio di mettere in contatto diverse realtà della scena contemporanea è stato da sempre motore del mio lavoro di direttore artistico regista e autore. Porre in comunicazione e scambio il teatro tradizionale, a cui normalmente i miei spettacoli approdano, e il teatro di innovazione, a cui alcuni miei progetti di fatto sono rivolti, non è privo di ostacoli di varia natura.
Tra tutti, l’ostacolo economico è il più penalizzante ed evidente. Nella storia della Benvenuti srl ho, sin dai primi anni cercato di formare nuclei artistici continuativi, che sposassero il mestiere dell’attore alla passione per la nuova drammaturgia e l’evoluzione della scena in ambito contemporaneo, sempre con l’attenzione verso il pubblico, che non mi piace dividere in “grande” o “intellettuale” o “giovane”. Questo percorso della produzione che dirigo e della mia figura di artista individuale approda oggi ad un nuovo progetto che mi vede coinvolto come attore, sotto la direzione del regista Davide Iodice, nell’allestimento Costruttori di Imperi di Boris Vian.
Non c’è casualità nella scelta del testo , le tematiche trattate sono infatti di grande attualità, e il pathos drammatico della paura dell’uomo di fronte alla sofferenza che la vita inevitabilmente riserva, ben si fondono con l’ironia di stampo surreale caratteristica di un autore come Vian. Affiancherò in questa avventura altri artisti provenienti dalla scena innovativa, Francesca Mazza, Valentina Capone ed Enzo Pezzella, diretti più volte da Leo De Berardinis, artista al quale mi sento legato da sempre; Alfonso Postiglione fondatore e interprete della compagnia Rosso Tiziano e Gianni Pellegrino, già mio partner in altre produzioni della Benvenuti srl (TTTT Beckettio e Come due gocce d’acqua) Del regista, Davide Iodice, ho potuto apprezzare l’evoluzione del lavoro nel corso di varie edizioni di Volterrateatro, in cui entrambi abbiamo partecipato individualmente.
E’ per me importante e stimolante affidarmi alla sua direzione e al tempo stesso acquisire nuove metodologie molto diverse da quelle che fino a questo momento ho utilizzato. All’allestimento di Costruttori di Imperi collaborano inoltre Tiziano Fario, scenografo di grande esperienza, curatore delle scene di Carmelo Bene; e Maurizio Viani, amico personale e regista del disegno luci dei miei spettacoli più significativi, ma anche storico collaboratore di Leo De Berardinis e, negli ultimi anni, legato artisticamente anche a Davide Iodice. Abbiamo avviato la prima fase di prove a Roma nella prima settimana di Aprile.
Il debutto è previsto a Luglio 2005 nell’ambito del Festival Costa degli Etruschi di Castiglioncello organizzato da Armunia, importante partner coproduttore del progetto, ed interlocutore preziosissimo per noi e per il panorama dell’innovazione culturale italiana. “
Alessandro Benvenuti
Nota critica sul testo
I Costruttori d’Imperi fu scelto da Jean Vilar per la Stagione 1959 – 60 al teatro Recamier e fu rappresentato per la prima volta nel dicembre 1959.
La piccola famiglia Dupont è costretta ad una continua fuga, all’ascensione dei vari piani di una illusoria casa, ogni volta che sente un ‘rumore’, stridente e lugubre.
Ad ogni piano i Dupont prendono possesso di un alloggio sempre più alto , misero e ristretto, dimenticando via via in quello precedente qualcosa della propria vita. Perdono la radio, la pendola, la macchina fotografica e dagli oggetti ai sentimenti, fino alla verità, all’amore , agli affetti. Pressati, inseguiti, sempre più stretti da vicino, prigionieri del Rumore. Fa parte della famiglia una bestia - uomo malconcia e strana, chiamata Smurz, continuamente negata, ignorata, insultata, battuta.
Mistero del ‘Principio’, ‘Nulla’ da cui siamo originati e verso cui ci spingiamo , secondo Sartre; angoscia della solitudine secondo Kierkgard. L’atmosfera è quella dei sogni, la stessa di Beckett, ma se per i terribili clown dell’irlandese il tempo non passa ed essi rimangono fermi, cristalizzati in un attesa mai finita di qualcosa che non viene, Godot, la fine del mondo, il bene, il male o semplicemente il sentirsi completamente vivi, qui non c’è posto per l’attesa: c’è tempo solo per la fuga e la rinuncia.
Crollato l’impero delle parole roboanti che si vanno via via svuotando di senso; l’impero dei luoghi comuni, del falso rispetto delle istituzioni, delle menzogne, delle illusioni, dell’otttusa e soffocante logica dell’ottimismo a tutti i costi, al povero Leone Dupont resta solo la certezza della solitudine, la lucidità della solitudine mai affrontata. L’angoscia , come una un’ombra lunga si stende sui muri, invade la stanza ed egli grida “ Io non sapevo…non sapevo”. Appunti per la regia Un attentato alla pubblica quiete, che mostri, riveli, se ne avrà la forza, quell’intima malattia che quotidianamente ci divora; la corsa epilettica senza direzione, il disamore ostinato, la cecità colpevole e matta, il buon senso mentitore, la saggezza dei nozionisti, l’ipocondria che ci incarcera, il consumo bulimico di ogni sentimento, la dispersione di ogni memoria. Ognuno dei personaggi esprime una tensione simbolica molto forte che bisogna evidentemente realizzare attraverso il lavoro della scena con molta attenzione ad ogni caratterizzazione. Il Padre può essere espressione violenta e cinica dell’INDIVIDUO, straniero a se stesso, terrorizzato dall’idea che possa esistere da qualche parte un altro ‘individuo’ in tutto uguale a lui.
Colono e colonizzatore, generale e soldato del suo esercito, macchina da guerra stolta, in tutto a noi contemporaneo. La Madre, può invece esprimere pure in una scrittura eccessivamente spersonalizzante a cui dare sicuramente maggior respiro quella SOCIETA’ omologa e irrimediabilmente smarrita, babele frastornante e assordata, dai vani desideri, dalle fatue passioni. Zenobia non puo’ non incarnare almeno un desiderio, un anelito di rivolta, Zenobia deve essere quel SENTIMENTO, quel libero allontanarsi del cuore che vagando si ingegna vie di fuga.
In Cruche più che nello Shmurz io vedo l’autore, nella sua linguistica, jazzistica anarchia, in Cruche scorgo L’IDEA, l’idea che se pur ostaggio di una cattività ammorbante sempre può sgambettare e alla fine rendersi libera. C’è poi il Vicino, l’esterno, IL MONDO per così dire, il mondo che più non sa farsi Storia, che solo sa essere notizia invasiva, aneddoto, gramigna opprimente, cerimonia vacua, celìa dell’umanità. Infine lo SCHMURZ che nessuna definizione può comprendere, che solo è quella UMANITA’ più viva e dolente.
Lo Schmurz è il compassionevole ed in qualche modo, il Cristo, o l’Animale, o tutti e due. Lo Schmurz che come si è detto è la vita e per me la vita nella sua espressione più alta: La SCENA quindi, o l’arte se si vuole e ancora, umilmente e sempre, LA POESIA. SULLO SPAZIO Lo spazio è solo ‘funzionale’, un’icona vuota, non rimanda a nient’altro che a se stesso. E’ una macchina celibe per così dire, la casamatta, il paradosso in cui le persone del dramma e gli attori sono imprigionati.
Tre variazioni, una per ogni movimento dell’azione; dal realismo del legno al vuoto del nero fino all’infinito niente dello specchio e del cielo. L’unico luogo che la scena ‘mima’ senza cerimonia è la fossa che ogni colono in questo vacuo ‘condominio planetario’ edifica con grande sforzo. Al centro di traverso alla una scala elicoidale inservibile, continuamente mobile, ‘incomprensibile’, un dna che non prolifica, avvitato nella carcassa della scena. SULLA DRAMMATURGIA E SUI ‘PERSONAGGI’ Il lavoro di drammaturgia che ho cercato di fare, è consistito innanzitutto nel ritradurre in maniera più ‘netta’ e scarna alcune parti del testo che mi sembravano troppo ‘distanti’, ridarle alla scena in un ritmo e in un senso più secco. Ho cercato poi di ‘incrociare’ alcune parti con altri testi soprattutto poetici di Vian che mi sembrava potessero esprimere in maniera più approfondita temperature e ‘colori’ dei ‘personaggi’.
Nel primo atto, il più apertamente realistico, ho tentato anche con delle inversioni di battute di privilegiare soprattutto il ritmo. Ho provato poi a riscrivere ed esplicitare in un senso più immediato o per noi più evocativo alcuni calambour e giochi di parole. In particolare ho tentato di ‘aprire’ e dare maggiore respiro ad alcune battute della madre, con aggiunte ed attribuzioni di frasi del padre ( e forse qualcuna di Zenobia) pur facendola restare sempre, come il ‘testo’ vuole, quell’eco continua e diperante.
Ho tentato di allegerire quell’aspetto di ‘fastidio’ nelle espressioni e nelle continue precisazioni di Zenobia cercando di esaltare soprattutto il lato ‘ideale’ delle sue ‘incursioni’ e per Cruche ho aggiunto solo poche battute ma in un senso più ‘politico’, in modo da incarnare l’aspetto patafisico e anarchico così proprio di Vian. Anche al vicino ho tentato di dare maggior respiro evidenziando quella vacuità di ogni affermazione che fa da doppio al padre e … a questo nostro ‘catodico quotidiano’ Per il padre ho cercato soprattutto di fare dei tagli, togliergli prolissità e dargli ritmo, e nel finale ho provato, amplificandone i dubbi, a farlo apparire per così dire più umano e disperato, minimo e sperduto come noi siamo, subafittuario e vano in un impero immutabile.
Davide Iodice
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