Quaranta fotografie per raccontare tra il bianco e nero delle immagini la diversità, le persone alla deriva, i travestiti, tutto ciò che la società borghese e benpensante relega ai margini per non vedere: tutto questo vive e viene raccontato da protagonista nella mostra 'Oltre i limiti della visione. Il percorso fotografico di Lisetta Carmi', curata da Giovanna Chiti e promossa dall'assessorato alla Cultura e dall Archivio fotografico toscano. A presentare l'esposizione, che sarà inaugurata Sabato 7 maggio alle 17 nei locali delle Antiche Stanze di Santa Caterina in via Santa Caterina 17, sono stati stamani l'assessore alla Cultura Andrea Mazzoni e il responsabile dell'Archivio fotografico Sauro Lusini: le foto ritraggono tutte il dopoguerra, gli anni '60 e '70 e le loro contraddizioni.
Dietro l'obiettivo Lisetta Carmi, oggi 81enne, grande intellettuale di origine ebrea che prima di essere una famosa fotografa è stata una pianista di livello internazionale e concertista molto acclamata e quasi per caso approdata alla fotografia. Molti dei suoi scatti sono dedicati a Genova, ritratta quasi come una città dell'Indocina, con il sottofondo delle canzoni di De Andrè nei suoi angi porti: «La fotografia viene utilizzata dall'artista come l'analisi della società e dei suoi aspetti particolari - ha commentato l'assessore Mazzoni - Con mostre come questa emerge il grande ma 'sommerso' lavoro di documentazione e catalogazione che l'Archivio fotografico realizza ogni anno, anche nel settore della didattica».
Come ha detto Lusini, il catalogo della mostra è uno dei due Quaderni che l'Archivio produce ogni anno dedicati a temi diversi, in questo caso il dopoguerra. Il saggio introduttivo è firmato da Uliano Lucas, famoso fotografo e amico di Lisetta Carmi che nello scorso novembre ha esposto a Prato le proprie foto dei bambini in guerra in occasione della festa della Toscana. Entrambi gli artisti saranno presenti all'inaugurazione di sabato.
Nel saggio Lucas scrive: “Nel panorama della fotografia italiana degli anni sessanta e settanta che è stato, a mio avviso, il periodo più stimolante della storia della nostra fotografia, Lisetta Carmi ha avuto un ruolo centrale quanto insolito e sfuggente.
Centrale perché a riguardarle oggi, le sue immagini si scoprono tutte inserite in quel momento di rottura, di svolta nella storia della cultura e della società italiana rappresentato appunto dai movimenti antiautoritari e di sinistra degli anni ’60, dall’imporsi della società di massa e dal nascere di un nuovo modo di raccontare e interpretare la realtà. Insolito e sfuggente perché, pur incarnando a pieno, interpretando con grande forza espressiva questo momento, la Carmi sembra viverne al contempo ai margini, in una sua personalissima storia che la porta fuori dai circuiti e dalle dinamiche del fotogiornalismo di allora, fuori dalle tematiche e dai racconti prediletti, tanto che io stesso, imbattutomi sporadicamente nelle sue immagini e nel suo nome in gioventù, l’ho scoperta e conosciuta solo in questi ultimi anni quando, uscendo dal vortice dell’impegno politico e del reportage giornalistico, sono tornato a guardare e a ricostruire le tessere e i percorsi della nostra fotografia.
Ho riflettuto allora su questa figura anomala, solitaria, di donna, appartenente ad una famiglia della borghesia genovese, di origine ebraica, adolescente durante la guerra, che decide a trent’anni di abbandonare una promettente carriera di concertista e di ricorrere alla macchina fotografica come strumento per conoscere il mondo . stessa”. Lisetta Carmi è nata a Genova il 15 febbraio 1924 dove ha vissuto dedicandosi allo studio della musica, sotto la guida del maestro They, per poi intraprendere la carriera di concertista fino al 1960, quando colpita dai disordini scoppiati contro la svolta a destra del governo Tambroni, sceglie di scendere in piazza con i portuali.
Si reca in Puglia con l’amico etnomusicologo Leo Levi impegnato a studiare i canti di una comunità ebraica e ne riporta immagini fotografiche che suscitano plauso e interesse. Decide allora di dedicarsi professionalmente alla fotografia, lavorando all’inizio per il teatro Duse di Genova dove era regista Squarzina. Fa reportage vendendo i propri servizi ai giornali senza comunque dipenderne: documenta la vita dei portuali e il mondo dei travestiti ai quali dedicherà un volume fondamentale, rivisita la Genova borghese ritraendo i monumenti e le sculture del cimitero di Staglieno, viaggia molto all’estero: Parigi, Israele, Venezuela.
Nel frattempo, mossa da un’esigenza interna di ricerca spirituale, si reca a più riprese in Afganistan, India e Pakistan. Nel 1976 le si rivela “Babaji Hairakhan Baba … come un specchio chiaro in cui potevo vedere il mio sé” e la sua vita è trasformata. Continua ancora qualche tempo a fotografare, quindi nel 1979 su indicazione di Babaji, crea in Puglia “terra che il maestro considerava sacra” un ashram “per la trasformazione delle persone e la purificazione delle loro menti, per la meditazione e il karma yoga”.
Vive a Cisternino.