Si avvia alla conclusione la lunga stagione 2003/2004 del Teatro della Pergola, iniziata il 30 settembre con l’Aida di Franco Zeffirelli. Una stagione da record, che ha visto oltre 84.000 presenze in teatro, di un pubblico attento, composito e in continuo rinnovamento, affascinato dalla lunga teoria di classici offerta dalla programmazione dell’Ente Teatrale Italiano. Una stagione importante, che pone le basi per un lavoro futuro ancora più incisivo ed interessante.
A chiudere la stagione non potevano essere che due grandi amici del Teatro della Pergola, Ugo Pagliai e Paola Gassmann, che regaleranno al pubblico uno tra i migliori testi goldoniani, La Bottega del Caffè.
Andata in scena a Mantova nella primavera del 1750, è la prima di quel gruppo di sedici commedie nuove scritte da Goldoni fra il 1750 e il 1751 fra le quali spicca, per validità di risultati e carica innovativa.
Il centro dell’azione è una piazzetta di Venezia, sulla quale si affacciano tre botteghe, il laboratorio del barbiere, la bisca di Pandolfo e il caffè di Ridolfo. Uomo dabbene, che svolge il suo mestiere con passione ed onestà, il caffettiere si rammarica perché Eugenio, figlio del suo defunto padrone, è soggetto alla passione del gioco che lo sta portando inesorabilmente alla rovina.
Uno dei primi avventori a presentarsi è Don Marzio, gentiluomo napoletano indiscreto e maldicente: egli rivela subito che Eugenio ha impegnato con lui gli orecchini della moglie e che Lisaura, la ballerina protetta dal conte Leandro, riceve segretamente visite per la porta di dietro.
Il giovane mercante appare alla mercé di Pandolfo e di Leandro, avventuriero e baro; Brighella è il solo disposto a soccorrerlo, pagando i debiti e chiedendo in cambio solamente l’impegno a cambiare vita.
Ma Eugenio non sembra dargli retta, divorato dalla febbre del giuoco è piuttosto occupato ad ottenere i favori della ballerina e ad offrire protezione a Placida, una pellegrina giunta a Venezia in cerca del marito.
Una modesta vincita, provocata ad arte da Leandro, esalta Eugenio al punto da spingerlo ad offrire ai presenti una cena nelle stanze della bisca. Dalla strada, Vittoria, in maschera, scorge il marito allegro e gaudente; Placida, a sua volta, riconosce tra i commensali il marito Flaminio, che qui si fa chiamare Leandro.
Ne segue una grande confusione che degenera in un duello fra Eugenio e il falso conte, mentre Vittoria vuol togliersi la vita, e Lisaura si commisera per essere stata ingannata. Don Marzio suggerisce a Leandro di fuggire, ma non esita a rivelarlo a Placida; s’intromette nel litigio fra Eugenio e Vittoria; riferisce involontariamente al capitano dei birri che Pandolfo nasconde nella sua bisca delle carte truccate. Svelate, alfine, le macchinazioni del maldicente, le coppie si ricompongono ed Eugenio promette di non giocare più.
Mentre trionfa la lealtà e la generosità di Brighella, Don Marzio se ne parte da Venezia, tra la riprovazione generale.
Si identifica spesso Goldoni con una generica bonomia, con uno sguardo fin troppo indulgente e consolatorio sui difetti dei suoi simili. La Bottega del Caffè dimostra come questo luogo comune sia infondato. In questo testo il grande scrittore veneziano ritrae con acuta crudeltà una comunità in cui non ci sono “buoni”, salvo il malinconico caffettiere Ridolfo che continuamente prova a rattoppare i buchi creati dalle miserie umane che lo circondano.
All’opposto di Ridolfo c’è il geniale personaggio di Don Marzio che non determina la malvagità altrui, ma la registra con perfida precisione.
Si ride, ma si ride amaro ne La bottega del Caffè, una risata che ha il sapore non troppo diverso dalla crudele satira della commedia italiana degli anni ’60.