Sembrano parlare una lingua diversa dalla nostra le etichette dei capi che solitamente si portano a lavare. Una fatica in più per le lavanderie che spesso sono costrette ad ammettere colpe che non hanno.
È successo nei giorni scorsi a una lavanderia pratese, che si è trovata davanti a una situazione davvero insolita: la maglia di un cliente la cui etichetta vietava sia il lavaggio ad acqua che a secco. Per non parlare poi di una giacca a vento che necessitava di diversi lavaggi prima di togliere i residui di sporco dai tessuti.
“Nel momento in cui il cliente ci chiede di lavare un capo – spiega la presidente della categoria pulitintolavanderie di Confartigianato Prato, Anna Bocci - non abbiamo scelta: siamo costretti a farlo, tanto che alla fine siamo noi a uscire dalle regole”. Incidenti come questi, secondo la presidente di categoria, “sono imputabili a un discorso più complesso: da una parte il problema di importare prodotti che non sono a norma con i parametri di etichettatura vigenti, dall’altra la sorpresa di trovare spesso abbinate delle correzioni agli standard di etichetta”.
Morale della favola, continua Anna Bocci, “la categoria si trova costretta a risarcire spesso dei danni pur non avendone responsabilità diretta”. Inevitabile la sensazione di essere il capro espiatorio di turno: “Il nostro compito è quello di lavorare nell’interesse del consumatore. Bisogna far capire alla gente che le lavanderie non sciupano i capi”.
“Anziché contrapporsi – sottolinea il responsabile delle categorie tessili di Confartigianato, Enzo Lucchesi - le lavanderie e i consumatori dovrebbero fare fronte comune: il problema, infatti, è che certi articoli non sono trattati come prescrive la normativa vigente”.
Del resto la posta in gioco è alta e, come ricorda Lucchesi, “non è un caso che il numero delle malattie allergiche da contatto sia in aumento”.