Pochi artisti come sono in grado di trovare la bellezza in ogni differente situazione musicale. Lee Konitz si mise in luce negli anni '40 con le orchestre di Jerry Wald e Claude Thornhill, in una breve ma significativa militanza nel nonetto di Miles Davis, ed al fianco di Lennie Tristano. In seguito sviluppò formazioni proprie, dedicandosi contemporaneamente all'insegnamento: classi, workshops, lezioni individuali e per corrispondenza. Uno dei pochissimi alto sassofonisti della sua generazione esente dall'influenza di Charlie Parker, Konitz si è rivelato estremamente flessibile e in grado di sviluppare di continuo nuove concezioni, cercando di evitare di essere accomunato a "generi" su cui non avesse il pieno controllo.
Estroso, imprevedibile, spesso poetico, anche nel campo della sperimentazione e dell'improvvisazione più astratta privilegia la riflessione, la pacatezza, l'equilibrio. È un concetto che risale ai tempi di Tristano: "Fu lui a insegnarmi ad avere la massima fiducia nella spontaneità. Da lui ho imparato a dominare la timidezza della nota iniziale e a cercare di sbarazzarmi del superfluo. Durante tutta la carriera ho lavorato nei contesti più vari, sempre alla ricerca di quella che è la mia musica essenziale.
Gli sarò sempre grato per avermi dato la capacità di trovarla". I suoi precedenti nel dialogo con sezioni di archi sono illustri, dal classico An Image del 1958 agli ingegnosi arrangiamenti di Daniel Schnyder per Strings for Holiday, l'omaggio a Lady Day e a Lester Young, realizzato nel 1996 con un sestetto d'archi e senza piano. L'idea dell'attuale "Project" è di un altro grande orchestratore e sassofonista, l'israeliano Ohad Talmor. I due si sono incontrati per la prima volta a Ginevra nel 1990; in seguito, alla testa di un ensemble allargato - quattro archi, cinque fiati e sezione ritmica - hanno intrapreso un lungo tour europeo basato sull'ambiziosa composizione di Talmor Suite for Lee Konitz.
Lo Spring String Quartet è composto da quattro musicisti austriaci, avvezzi ai territori standard di jazz, pop e classica e perfetto complemento alla dolce, erudita trance di Konitz in un repertorio improntato soprattutto ai maestri impressionisti francesi del Novecento. "Quando l'approccio è onesto e c'è un reale rispetto della tradizione, qualsiasi tentativo è legittimo", spiega Talmor. "Le linee improvvisate di Lee sono una naturale estensione delle partiture scritte, e dimostrano che è possibile fondere repertorio classico e improvvisazione senza perdere l'essenza dei due mondi.
Se l'arte è giustificata dalla combustione interna che accende nei cuori di uomini e donne, allora i canoni stilistici sono irrilevanti.”
Incredibile ma vero, la band dei Flippers, che nei lontani anni Sessanta
truffò l'Italia vendendo qualcosa come quattro milioni di dischi
e suonando per intere stagioni in locali storici come la Bussola,
il Sing Song, la Capannina di Forte dei Marmi, il Barracuda di Santa
Margherita Ligure, l'Excelsior di Venezia e via di questo passo,
è tornata sulla scena.
E' come ritrovare Bernadette che fa l'infermiera
al policlinico, Beethoven che lavora alla Maico o un settantanovenne
che fa i 100 metri a ostacoli. Ma purtroppo è la realtà: invece di andare
ai giardinetti o a giocare a bocce insieme ai pensionati, l'allegra
brigata (allegra? si fa per dire) si è rimessa a suonare e viene addirittura
pagata per farlo. La trovate in alcuni locali romani come il
New Orleans Cafè, e se volete rovinarvi una serata potete anche andare
a sentirli martedi sera al BZF in via Panicale.
La formazione è quella originale al completo, con Max Catalano alla tromba, Romolo Forlai al vibrafono, Jimmy Polosa al piano (fu uno dei membri fondatori, e dopo di lui è entrato nel gruppo Franco Bracardi), Maurizio Catalano alla chitarra e Fabrizio Zampa alla batteria.
Ai vecchi tempi il loro vocalist, clarinettista e sassofonista era Lucio Dalla, che restò con la band un paio d'anni e cantava in inglese, inventandosi le parole, gli hit di Ray Charles a cominciare da "Georgia On My Mind". Jimmy Polosa, che fu il primo pianista del gruppo, venne poi sostituito da Bracardi, attuale compagno di palco di Maurizio Costanzo. E adesso alla band si sono aggiunti altri due musicisti: sono il clarinettista e sassofonista Maurizio Moscatelli e il bassista Lallo Pascucci.
Ciascuno dei vecchi e nuovi Flippers nella vita fa altre cose: Catalano fa Catalano, Jimmy Polosa si occupa di supercomputer, Zampa fa il giornalista, Bracardi lavora da vent’anni con Costanzo, Maurizio Catalano faceva il discografico e adesso si prepara a fare il giro del mondo in barca a vela, Forlai continua a coltivare la musica nel suo castello nelle Marche, e così via.
Il loro attuale repertorio è quasi da modernariato, con standard e classici del jazz e dello swing e brani doc italiani e stranieri opportunamente rivisitati e riarrangiati con suoni attuali, e ovviamente comprende, per la serie l’erba cattiva non muore mai, anche i cavalli di battaglia dei Flippers.
Dal vivo, infatti, la band propone un concerto di un’ora e mezza o anche due che si muove fra classici d’annata, standard tradizionali e brani doc: molto buon vecchio swing (A Fine Romance, It Had to Be You, Fly Me To The Moon, All of Me, The Way You Look Tonight nonché pezzi di Duke Ellington come Don’t Get Around Much Anymore o la versione originale di quel Don’t Mean a Thing il cui remix, grazie a uno spot televisivo, è recentemente diventato un hit), evergreen di Louis Armstrong (La vie en rose, Hello Dolly), alcuni cha cha cha dei Flippers e di altre formazioni (Muskrat Ramble cha cha cha, Jada, Turna a Surriento, Patricia, A lo loco, Un poquito de tu amor, Tea for Two), qualche ragtime (come The Entertainer), qualche piccolo viaggio nella memoria degli anni ’60 (Marino Barreto, Fred Buscaglione, Bruno Martino), nel jazz di Benny Goodman e Lionel Hampton (Stardust, How High The Moon) e in bellissime composizioni che fanno parte delle colonne sonore di cult movies (come Mon oncle di Jacques Tati, Shining di Stanley Kubrick, Blade Runner di Ridley Scott) o anche dei cartoni animati di Disney, la consueta dose di blues e così via.
Oltre a offrire molta musica le performance dei Flippers sono anche un piccolo spettacolo che racconta con humour le avventure e le disavventure di una band che suonava nei night club di un’epoca contraddittoria, spesso buia ma in fondo anche divertente come gli anni Sessanta, che il pubblico giovane non conosce ma sulla cui storia è quasi obbligatorio farsi molte liberatorie risate: Catalano e i suoi compagni di palco rievocano con la giusta dose d'ironia le loro disavventure, e insieme alle peripezie del gruppo tracciano un curioso quadro di anni nei quali l'Italia viveva un inesistente e finto boom economico, un periodo in cui la censura era pesantissima, ai gestori dei locali mancava solo la frusta, farsi una canna era fantascienza, il sesso era un reato penale e le ragazze che la davano erano praticamente introvabili.
Forse non ci crederete, ma i loro racconti e la loro musica sono qualcosa che i ragazzi di oggi non conoscono e sui quali è impossibile, soprattutto per i giovanissimi, non ridere o alla meno peggio non sorridere.
E loro, incredibile ma vero, si divertono molto e per di più vengono addirittura pagati per farlo...